È reperibile un po’ dappertutto: dalla pianura ai pascoli alpini fino a 2000 metri. Fa parte da millenni della dieta di mucche e altri bovini mentre l’uomo se ne ciba da sempre ma soprattutto in tempi di carestia a causa dell’elevato contenuto proteico. I sui fiori, giallo cromo intenso, assomigliano vagamente a quelli della ginestra. Ci stiamo occupando della pianta che i latini chiamavano “Cicerula” e che noi oggi definiamo “Cicerchia”. Il fiore riprodotto nella foto appartiene alla varietà Lathyrus pratensis, appellativo binomiale imposto dal consueto Linneo verso la metà del XVIII secolo. Il nome generico “Lathyrus” pare derivi dal greco antico con l’unione del rafforzativo “la” e del termine “theros” che descrive l’effetto “riscaldante” di alcune sostanze afrodisiache.
Si tratta di una pianta leguminosa il cui consumo deve essere effettuato con qualche prudenza poiché i semi del “Lathyrus” contengono un aminoacido tossico chiamato Odp o “cavanina” che, se assunto quotidianamente e in elevate quantità, può provocare una grave sindrome neurologica nota come “latirismo”. Per questo prima di consumarne, è necessario un ammollo di almeno 24 ore e una bollitura in abbondante acqua salata per ridurre la concentrazione di tossine. Il “lathyryus” è noto con molti nomi comuni fra i quali Galletto, Ingrassabue, Latiro latifoglio, Petto di monaca, Pisello da siepe e così via. I semi di cicerchia forniscono inoltre un buon apporto di carboidrati, vitamine, ferro, calcio e fosforo e possono essere utilizzati come ingrediente per produrre pasta e pane. Però, se vi piace il pane fatto in casa, lasciate perdere la cicerchia e usate solo farina, acqua, sale e lievito. Meglio non rischiare.