Ho letto su Valbiandino.net che il 19 settembre 300 (più o meno) sciamannati correranno per 42,390 kilometri (leggasi: quarantaduemilatrecentonovanta metri lineari) su e giù per le Grigne. Totale: 3900 metri di dislivello positivo. Cioè tutti di salita. Non avevo ancora finito di leggere il titolo che già sudavo come l’albero di Van De Sfroos (“La balera” in “Breva e Tivan”; 1999). Però l’ho fatta anch’io la mia sky marathon. Forse non comprendeva difficoltà tipo D+. E forse era anche un po’ meno lunga. Vabbé, non ho mai corso nemmeno per un metro.
Però che fatica, ma una fatica… Insomma uno (molto tempo fa) aveva posto la seguente la domanda “Perché vai in montagna?” e l’altro (non ricordo più chi) aveva risposto “Perché è lì”. Vi pare una risposta seria? Ecco. Invece io ho dato la stessa sciagurata risposta con valore affermativo a una domanda, simile nello spirito anche se diversa nella lettera. Che suonava più o meno in questi termini: “Domani andiamo a camminare?” Era sottinteso “in montagna”. Lo sapevo. Lo sapevo sì. Certo che lo sapevo. Ma ho risposto da eroe tragico, classico, stupido. Tipo Oreste e i suoi fratelli. E così ho bofonchiato “Va bene, vengo anch’io. Basta che non guardate il cronometro come al solito”. Purtroppo nessuno mi ha risposto jannaccianamente (orribile!) “No tu no”. Avrei potuto opporre un rifiuto, dire “un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai”.
Ma ho scriteriatamente preferito prendere esempio dalla monaca di Monza. E la mattina di venerdì 13 agosto 2021 d. C. alle ore 7.34 a. m. due automobili hanno fatto il loro ingresso nell’abitato di Premana. Subito, il primo problema: trovare un parcheggio fra le decine e decine di vetture che occupano ogni anfratto possibile nel territorio urbano. Ovvio, è quasi Ferragosto. Davvero qualcuno pensava che fosse così facile? Dopo una serie imprecisata di tentativi infruttuosi penetriamo in un parcheggio con posti liberi. Ovviamente a pagamento. Non c’è alternativa. Lasciamo le macchine e poco dopo (ore 8.05 a. m.) imbocchiamo un ripidissimo sentiero che si inerpica verso l’alpe Deleguaggio. Magari non è troppo lontana.
Trascorrono 15 o 20 minuti di ansimi e tachicardia quando il Manfred lancia un grido d’allarme: “Ho dimenticato il cellulare in macchina. Devo tornare a prenderlo. È praticamente nuovo.” Sono quasi contento. Almeno riprendo fiato. Così mi siedo su un sasso bitorzoluto (l’unico disponibile) e, riposando, mi torturo la natica destra e sinistra alternativamente cercando invano una posizione indolore. Alle 8.50 circa, il Manfred torna entusiasta. “L’ho trovato. Ma non l’avevo dimenticato in macchina. L’avevo lasciato sul tettuccio”. Affermazione accompagnata da un paio di succulenti vaffa indirizzati con estrema precisione verso il Manfred medesimo. Si riparte verso gli alpeggi della Val Varrone. Strada facendo scopro che la Bibbia aveva ragione. Almeno su un punto.
I giganti sono esistiti e qualcuno di loro, in tempi immemorabili, doveva aver tracciato il percorso lungo il quale stiamo procedendo: “In quel tempo c'erano sulla terra i giganti, e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli.” (Genesi 6:4). Ecco perché tutto il sentiero è disseminato di gradoni alti più di mezzo metro. Protendere la gamba a monte non è difficile. È difficile recuperare la gamba a valle. Dice: “Ma in salita è sempre così.” Vero. Per questo preferisco la pianura. Tutt’al più la discesa, meglio se umbratile e ricoperta di morbida erbetta.
La “gita” prosegue mentre lo zaino comincia a pesarmi sulle spalle e sulle gambe. Ma dopo un’altra mezz’ora di scalata mi ricordo di non avere uno zaino. Sono leggero come una piuma. Ma allora perché le gambe e il fiato sono così pesanti? Andiamo avanti. Ascolto assorto il ritmo parossistico del mio respiro e il chiacchiericcio di Mara che, davanti a me, cinguetta senza tregua dimenticandosi certamente di respirare. Ma alla fine tutto ha una fine (anadiplosi scaramantica). Almeno così credevo. Infatti dopo alcuni minuti/ore il capo (Giacomo) lancia un avvertimento: “Ecco le baite, vedete? Siamo quasi arrivati.” L’indice punta in alto. Molto in alto. Troppo in alto. Lassù, a distanze siderali, minuscole e irraggiungibili, si materializzano alcune costruzioni in pietra. “Quasi arrivati?” Vabbè. Altri venti minuti di rantoli e coronarie sgarrupate, mentre Michela continua ad individuare funghetti qua e là lungo il sentiero. Lo fa da quando siamo partiti: si ferma, li esamina uno ad uno, poi riparte e con una corsetta si riporta in coda al gruppo. Stop and go, per tutta la strada (ma come fa?), fino a Deleguaggio che finalmente raggiungiamo. Sono ancora virtualmente vivo (credo) e mi stravacco sull’erba dell’alpeggio. Molto bello e ben tenuto. Panorama mozzafiato. (Fiato? È già mozzato di suo).
Non ci resta che il ritorno via Premaniga. Questi erano i patti. Poi Giacomo guarda in alto e chiede a un signore panciuto dove si trovano i Laghitt. Altro indice puntato verso l’alto e sentenza desolante: “In mezz’oretta siete su.” Mara guarda affascinata il pendio che si inerpica verso il nulla e propone ciò che temevo: “Ci facciamo un salto?”. Nooo! I Laghitt no, non mi interessano, non li voglio nemmeno vedere; voglio fortissimamente tornare a casa possibilmente senza l’intervento dell’elisoccorso, sbotto con impeto del tutto interiore. Il Manfred intanto fa finta di niente e si allontana di qualche passo fingendo platealmente di interessarsi a una vecchia ruota di mulino addossata ad un muro. Penso sia del mio stesso parere. Non è necessario un rifiuto categorico, bastano un paio di sguardi e ci capiamo. Dunque si rientra abbandonando i Laghitt al loro destino. Evvai! Scampato pericolo.
Ora è tutta discesa, no? Il seguito della mia sky marathon è un estenuante su e giù lungo un sentiero che non si capisce bene se salga o scenda. Mi fa male un piede. Michela imperterrita continua a individuare funghi saltellando qua e là mentre Mara e Giacomo conversano allegramente. Manfred tace assorto forse contando i passi. Raggiungiamo Solino al termine di una sessantina di metri di perfidissima salita. Quota 1600. In tre quarti d’ora siamo scesi di appena 100 metri. Breve, benedetta, impercettibile sosta. Ho lo sguardo un po’ annebbiato. Mi bruciano gli occhi. Il posto è molto panoramico, dice qualcuno. Qualcun altro dice che c’è anche un pozzo. Deve essere proprio bello. Si riparte.
Arriviamo in qualche modo a Premaniga immersi in un’afa tropicale. Sosta provvidenziale. Impugno mezzo panino ma impiego dieci minuti a biascicare il primo (e unico) boccone: anche le mascelle sono troppo stanche. I muscoli pterigoidei non ne vogliono sapere di svolgere la loro funzione istitutiva. E anche masseteri e temporali non sono in gran forma. Come tutti gli altri, del resto. Così mi limito a bere un bicchiere di panaché (“cocktail alcolico di origine francese realizzato con birra e gassosa, sprite, acqua tonica o altri”. fonte) e a fissare il vuoto davanti a me. Quando ripartiamo verso Premana e la salvezza, scopro la causa del dolore al piede: una vescica al tallone destro. Ogni passo una fitta.
Ma la stanchezza sembra attenuare il dolore. Ancora mezz’ora di patibolo. Intuisco i primi tetti di Premana e una gioia molto simile alla felicità mi invade: ecco, ci siamo. Ma ci vogliono altri dieci minuti per arrivare alle macchine. Mentre mi slaccio il marsupio colgo con la coda dell’orecchio che Giacomo sta proponendo agli altri la passeggiata di dopodomani. Frasi smozzicate: “… Fraina… zzo Rotondo… Stavello… tto ore non di più…” Luoghi oscuri, nomi inquietanti. Penso alla sky marathon, a quella vera. Dovunque vogliano andare, ci andranno senza di me. Lo giuro.