Lissone. Anno domini 2013. Nevica. È lunedì.
Lascio la mia Skoda Octavia turbodiesel nel box e decido di utilizzare le mitologiche ferrovie Trenord. Mi incammino verso la stazione, mentre fischia il vento e infuria la bufera. Non appena intravedo i binari l’altoparlante stonato e stridulo annuncia l’arrivo del mio treno.
Ho freddo, fame, guanti cinesi in cotone da 2 euri, cappellino cinese da 3, ombrello cinese da 4, mi scappa la pipì e non ho i biglietti. In Cina non li fanno ancora.
Con agile corsetta, mi fiondo dal tabaccaio della stazione e quasi mi si svitano gli acetaboli scivolando. Per guadagnare tempo, inizio a togliermi i guanti, ma in mano ho anche il mio coso (l’ombrello). L’ho prudentemente chiuso. Ma inopinatamente esso si riapre e gli si rompe una stanghetta. Mi casca un guanto. Poi anche l’altro. Si macchiano non di neve ma di altre materie organiche. Ad occhio e croce, pare non trattarsi di pupù di yak ma più probabilmente di feci autoctone umane.
Alle mie spalle il treno in lontananza sbuffa e mi spernacchia. Mentre fischiano sia il vento che il treno e infuria la bufera.
Con virile spallata tento di aprire la porta del bar tabacchi. Non si apre. Dove sbaglio? Mi sfugge qualcosa. Nuova spallata. Un dolore triste di ossa schiacciate mi immalinconisce un po’ ed estrapola alcune parolacce dalla mia epiglottide. Leggo sul vetro un irridente TIRARE. E infatti, tirando la porta, questa si apre come per magia. Una faccia da pirla (con i baffi) vede la scena e sorride. Se ne avessi il tempo e non fossi il gentiluomo che sono, lo bastonerei ripetutamente con l’ombrello, anche aperto.
Trafelato mi dirigo al bancone per acquistare i biglietti. Il giovine barista, leggermente effeminato (ma solo un po’), mi chiede se io non abbia 80 centesimi spicci per facilitarlo nell’operazione del resto. Gli dico di no. Se li avessi te li avrebbi diggià dati, pirla!
Me lo richiede con voce languida. Ribadisco il mio no. Non cambio idea facilmente, io! E, intanto, il treno sbuffa e si appresta ad approdare. Mentre fuori fischia il vento, infuria la bufera e qualcuno espettora rumorosamente tra i piedi di chi gli sta accanto, osservando compiaciuto il frutto della sua fatica.
Il giovine barista tentenna, traccheggia, porgendomi infine il resto: 12 kg di monetine. Ignoro a fatica una vocina interiore. Se la ascoltassi, procurerei al giovine numerose abrasioni e contusioni multiple, servendomi del mio ombrello, che nel frattempo si è aperto di nuovo.
Ritiro i biglietti e raccolgo il resto a piene mani. Alcune monete mi cadono per terra. Un cliente con panza e baffi, furbescamente, cerca di coprirle con il suo doposcì firmato. Ma io non sono nato ieri e pretendo che mi restituisca i miei 3 centesimi! Me li sono guadagnati col sudore della fronte e, talvolta, anche delle ascelle! Oltretutto, non espettoro in ogni dove, io.
Minaccio con l’ombrello il ladro coi baffi ed egli impaurito cede.
Il treno è giunto. Si ferma 50 metri oltre il punto prestabilito. Ma io non ho ancora obliterato il mio biglietto. Ovviamente, la macchinetta preposta allo scopo è rotta da decenni. L’ultimo che è riuscito ad utilizzarla, mi dicono, è stato seppellito 23 anni fa. Vivo. Vengo a sapere da una signora, brutta come la disperazione, che c’è un’altra macchinetta obliteratrice in sala d’aspetto. Mi ci fiondo con agilità sorprendente. Ho 50 anni, e quando giocavo a calcio mi chiamavano il diesel della Brianza.
Mentre mi appropinquo all’obliteratrice per infilarvi il mio coso, una signorina, incrociandomi, quasi sviene. Finge di aver dimenticato chissà cosa e fugge via, stringendo tra le sue mani il suo ticket bagnato. Il biglietto le cade, si china per raccoglierlo e si accorge che il mio sguardo si è depositato sul suo didietro ottimamente disegnato da madre natura. Ella inorridisce e comincia a correre. In effetti, oggi non sono proprio un bel vedere: barba incolta di 4 giorni, capelli (15 in tutto) sbrindellati dalla tempesta di neve e quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che non abbiamo visto Genova. E, oltretutto, sono sempre col coso in mano (l’ombrello).
Il sangue di atleta che ancora pulsa e girovaga in me, mi consente di saltare sul treno con leggendario gesto atletico. John Wayne, dall’alto, si complimenta con me, sorride e spara felice. Mancano solo gli indiani e John Ford.
Mi siedo felice e soddisfatto. Basta poco per esserlo, penso.
Accanto a me un signore sui 75 anni portati malissimo e una signorina sui 25.
Non credo ai miei occhi… Il vecchio, dalla lingua svelta e dal cappotto marrone cammello castrato, non smette di parlare un attimo, dando vita a un approccio grottesco e davvero incredibile.
Ella sorride per cortesia. Risponde a monosillabi. Finché a un certo punto non gli chiede assurdamente: “Ma lei, di che segno è?”
E il vecchio riprende vigore, facendo le corna. Dev’essere del toro, presumo. Lui ha due figli, ormai quasi in pensione, ipotizzo... La signorina, invece, è pugliese e sposata da due anni. E qui il sudicio signore col cappotto marrone cacca di licaone riparte in quarta. Mare, campagna, cielo grande, cielo blu, neve, crisi economica… Lui, vengo a sapere, ama la montagna e le escursioni oltre i 3000 metri. Lo guardo attentamente e lo vedo incapace perfino di far pipì da solo…
“Si mangia bene da noi – dice la ragazza – e infatti ho preso qualche kg, durante le feste…”
“Non preoccuparti – dice il suino – lo sai che cosa diceva mia mamma? – e nasconde la bocca con la mano, avvicinandosi alla ragazza per rivelarle chissà quale irriferibile segreto.
Sento con facilità quel che dice e convengo con la di lui mamma. “Meglio un po’ di carne attorno all’osso, che l’osso senza carne attorno…”
Riguardo il mio ombrello. È chiuso. Mi sono trattenuto dal bastonare il pirla coi baffi che voleva derubarmi e il giovin barista. Però, a questo signore col cappotto marrone, alcune randellate le regalerei volentieri.
Giunge un controllore dai tratti somatici arabeggianti.
Fatico a trovare il biglietto. L’ombrello gli cade tra i piedi, ma non si apre. Fuori, rutta il vento e infuria la bufera. E io penso con nostalgia alla mia Skoda nel box. Chissà se anche lei mi pensa.
“Non è timbrato! - tuona il controllore - Ah, no… si vede poco… dev’essere colpa della macchinetta…”
Caro controllore, ma se io ti dessi una bella ombrellata sul ginocchio e ti regalassi 3 settimane di infortunio, pagato da mamma Inps, tu che faresti?
Finalmente giungo in ufficio. Il riscaldamento è fuori servizio. Il rumore dello sciacquone rotto mi fa capire che il mio anziano collega, abbastanza sordo, ha già fatto pipì e come al solito ha esagerato schiacciando il pulsante. Dulcis in fundo, il papa si è dimesso.
Penso a quale fortuna avesse John Wayne: poter andare a cavallo senza dover obliterare nulla, con la libertà di scazzottare ogni cattivone.
Bella la neve, però. Probabilmente, non è altro che forfora di nuvole distratte.
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Storie di Vita