“Quanto sangue è venuto fuori!”
disse Jack, ridendo e rabbrividendo
“avresti dovuto vedere”
W. Golding, “Il signore delle mosche”
C’è una guerra sullo sfondo. Uno sfondo terribile che assume fin da subito le caratteristiche del primo piano. Un contesto che determina completamente, l’intero percorso del romanzo. “L’impero del sole” parla della guerra e di un bambino, coinvolto ma non travolto né sconvolto dagli eventi, in un lontano Oriente chiamato Shangai.
La II guerra mondiale, la più dura, la più crudele, la più schifosa mai voluta dall’uomo. Qualcuno ha individuato un nemico (ma se il nemico è il mondo?), premuto qualche bottone, dichiarato formale ostilità, sparato, bombardato, ucciso in una spaventosa catastrofe planetaria. Ma che c’entra Jim in tutto questo? La guerra è una cosa da grandi. I bambini non la vogliono, non la capiscono, non la “vedono” nemmeno. Anche se la vivono tutta intera. Jim, 11 anni, sconta così, come tutti, le colpe dei padri. E delle madri. Ma “le madri non c’entrano!” Beh, senza madri, non ci sono padri. E nemmeno figli. Neanche, dunque, la sofferenza psicologicamente e soggettivamente incerta di Jim che attraversa la guerra, le percosse, i bombardamenti, la fame, la malattia, con lo sguardo anodizzato dell’infanzia, quasi con indifferenza. In un’opacità di pensiero (non un’assenza) che in qualche modo lo protegge dagli attacchi violenti del tempo e degli eventi che il piccolo percorre fin dalle prime pagine.
Ballard parla di sé scrivendo di Jim. Non un’autobiografia classica. Non un adulto che racconta oggi del bambino di ieri precipitando così nell’inevitabile frattura stilistica e sostanziale che separa presente e passato, infanzia e maturità. Ballard riesce con maestria a tenere saldamente la penna descrivendo il mondo con occhi, sensazioni, emozioni, pensieri di un cucciolo d’uomo che gioca con la crudezza del mondo. Il gioco: efficacissima arma difensiva contro le asperità della vita. Jim non è un homunculus, un bambino che pensa e agisce da adulto. O, se preferite, un adulto in forma di bambino. Lo sono, invece, i ragazzini descritti nel romanzo di Golding cui si accenna nell’epigrafe, i quali assumono in corpi acerbi la brutale maturità dei padri.
E costruiscono clan, feticci, crudeli divinità totemiche, veri eserciti, vere guerre, ferrei sacrifici umani muovendosi sulle pulsioni di un’antichissima antropologia. Quei bambini siamo noi. Non Jim. Non Ballard la cui prosa meticolosa, polverizzata ma lucida come carta vetrata ci spiega che il fanciullo non distingue l’io dal sé; il proprio corpo dall’ambiente circostante. Non ci sono per Jim, per tutti i bambini, una realtà psichica soggettiva e un mondo fisico oggettivo. Il bambino vive il “fuori” come protesi o, meglio, come appendice di sé. La vera diversità, la radicale contrapposizione io - mondo, adulto - bambino, bene - male è prodotta dalla Norma che genera la moralità. Così nasce la storia. L’albero edenico che ci ha perduti, insegnandoci a distinguere il bene dal male, ha trasformato di colpo Adamo - bambino in adulto e in peccatore. Per sempre. Jim attraversa il mondo da bambino: giocando. E sognando. Ma il gioco che impegna Jim non è preparazione alla vita, come spiegavano un tempo gli psicologi dell’età evolutiva. Il gioco è vita, vita vera e realissima, vissuta intensamente. Le regole, scritte da altri, si accettano totalmente. Tanto è un gioco. O un sogno.
E l’eteronomia ne fa parte integrante. Anche per questo il fanciullo non prova ribrezzo alla vista del “guanto” di pelle umana trovato dal padre mentre soccorre un militare ferito. Jim si trova a proprio agio o comunque non in grave disagio, nell’universo dalle caratteristiche primitive realizzato dal clima bellico, che impone “soltanto” la lotta per la sopravvivenza. Uno sviluppo che Jim vive in termini semi-ludici, dunque non traumatici. Funziona così anche il rapporto, certamente difficile e complesso, con Basie. Un adulto l’avrebbe vissuto come schiavitù. Per Jim si tratta semplicemente di collaborazione legata a necessità contingenti.
Il mondo preadolescenziale del bambino scorre così come una proiezione onirica suddividendosi equamente tra realtà e fantasie infantili. Il puntinismo descrittivo di Ballard è strumento esemplare nella ricerca di un difficile equilibrio che si regge mirabilmente su una rete di pensieri sparsi ed irrequieti prodotti dalla mente del fanciullo perso in un universo disperato e violento.
Jim attraversa una guerra sporchissima, maleodorante, crudele fino al parossismo, con sguardo disincantato, come se stesse guardando un film nelle vesti di protagonista e spettatore insieme. Non c’è bisogno di ricordare che inizio e fine del romanzo si svolgono in una sala cinematografica all’aperto. Regìa e sceneggiatura appartengono al gioco essenziale della vita che Jim accetta fino in fondo con atteggiamento quasi onirico, però non superficialmente cinematografico.
Solo il quotidiano contatto con la morte consente, qui, il paradosso della sopravvivenza dalla quale forse emergerà un adulto.