La commemorazione della liberazione d’Europa dal nazifascismo si celebra ormai in tutto il mondo. La data della ricorrenza è significativa perché quel 27 gennaio del 1945 la 60esima divisione dell’Armata rossa abbatté i cancelli del luogo simbolo della barbarie hitleriana: il lager di Auschwitz. Oggi, 8 aprile, l’ebraismo celebra un’altra ricorrenza legata però non all’olocausto ma ad un fatto religioso e, insieme, storico: il lag Baomer. Evento che ha un importante punto di contatto, quasi un ricorso storico, con il periodo nel quale stiamo vivendo a causa della pandemia. Infatti oggi gli ebrei osservanti ricordano la fine di quella che probabilmente fu una pestilenza e che fra il I e il II secolo della nostra Era uccise 24mila allievi del rabbino Rabbi Achivà, grande autorità dell’ebraismo rabbinico. Per amor di imparzialità occorre ricordare che secondo alcuni storici non di morbo si trattò bensì di eccidio perpetrato dai legionari romani che occupavano la Palestina. Le commemorazioni del Lag Baomer forniscono però anche l’occasione per affrontare un argomento strettamente legato all’ebraismo: le leggi razziali antisemite mussoliniane del 1938.
Anche se in Italia non ebbero conseguenze paragonabili a quelle prodotte dall’antisemitismo nazista nel resto d’Europa, dopo l’estate del 1938 vivere nel nostro paese per chiunque fosse ebreo, fu molto difficile. In particolare dopo l’8 settembre 1943 quando anche da noi si scatenò una vera e propria la caccia al giudeo nella quale si distinsero i nazisti e le camicie nere repubblichine. Quella che ebbe inizio nell’estate del ’38 fu una vera e propria proscrizione. Per individuare i cittadini con ascendenti ebraici furono usati molti metodi, uno dei quali, a più di 80 anni dagli eventi, è forse poco noto. Dall’estate del 1938, infatti, in Italia il regime decise di individuare gli ebrei sulla base del patronimico. Un cognome ebraico, infatti, veniva considerato dal regime mussoliniano “marchio di infamia” come recita il titolo del saggio di Giorgio Resta, apparso sul numero di maggio del 2014 della “Rivista di diritto privato” (Cacucci editore), al quale faremo spesso riferimento in questo scritto.
In sintesi le leggi razziali stabilivano che non avevi un nome ebraico perché eri ebreo ma eri ebreo perché avevi un nome ebraico. Tragica inversione di causa ed effetto. Questa “caccia all’uomo” fu dotata anche di strumenti giuridici e legislativi. Il fatto è che risalire all’origine etnica di qualcuno è tutt’altro che semplice e richiede spesso, in assenza di evidenze conclamate, lunghi e complessi percorsi di ricerca genealogica. Dunque, con il pressapochismo caratteristico di molti aspetti del fascismo, l’apparato, per compiacere il “paflagone smargiasso” uno dei simpatici appellativi con cui Carlo Emilio Gadda addita Mussolini, diede inizio nell’estate del1938 in omaggio alle leggi razziali, la caccia all’ebreo e a tutti coloro che tenevano nome o cognome più o meno giudeo. Così, chi aveva la sfortuna di chiamarsi, ad esempio, Foa, Lerner o Savona, rischiava grosso. Nel migliore dei casi perdeva il lavoro, se dipendente pubblico, o quasi tutti i diritti civili negli altri casi. Insomma il nome, soprattutto il cognome, poteva essere la rovina di chi lo portava. Fosse o meno ebreo.
Oggi il nome, inteso specificamente come segno di individuazione dell’identità personale, è significativamente tutelato dalla Costituzione che, all’articolo 22, proclama con solennità che nessuno può “essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. È appena il caso di sottolineare come, nella sterminata letteratura in materia di esegesi costituzionale, lo spazio dedicato a questo aspetto della Carta, sia ridottissimo, quasi nullo. È certamente più facile individuare i motivi che possono indurre qualche Autorità a privare della cittadinanza o della capacità giuridica un membro della società, che trovare elementi sostanziali che portino alla perdita del nome.
Eppure la storia, come spiega Resta nel saggio citato, “è tristemente ricca di esempi di alterazione coattiva, o addirittura di privazione, di uno dei segni maggiormente connotativi dell’identità personale, come è il nome.” Proprio il trattamento al quale il regime guidato dal “forlimpopolesco mascellone” (ancora Gadda) ha sottoposto i nomi ebraici ha dunque esplicitamente indotto i costituenti ad inserire nella Carta uno strumento di garanzia a tutela del nome.
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