Non è nemmeno uno di quegli antichi e immensi eroi del mare che hanno accompagnato Giasone o Piritoo a fendere i solchi sconosciuti del cielo poseidonico. Per lui non c’è una lontana ma gratificante Colchide. Povero, piccolo Ulisse senza corona né Penelope, senza Itaca né protezione divina. Lui, vecchio, debole, stanco, indomito Santiago crede in un solo dio. Un dio del quale non è proibito pronunciare il nome: Joe. E nemmeno il cognome: di Maggio. È la numinosa divinità degli stadi diamantati del baseball a fargli compagnia dalle pagine di un giornale ricoperte di rughe come la sua antica pelle di pescatore.
Povero, piccolo Achab senza Mobi Dick. Il grande capitano zoppo combatteva per la gloria e per la storia. Ed è morto in battaglia; farneticante, lucidissimo simbolo delle nostre colpe e del demone che ci agisce. Ma almeno, per una volta almeno, Davide è morto insieme a Golia. Giona, come Sansone, ha distrutto sé stesso e il Leviatan che l’aveva ingoiato.
Però come dice e pensa Santiago, “L'uomo non è fatto per la sconfitta. Si può uccidere un uomo ma non sconfiggerlo." Il vecchio pescatore è un minuscolo, gigantesco eroe sfortunato. Qui Ettore non conosce una morte gloriosa. Non c’è un Achille a lacerargli i visceri con lama invincibile. Le sue ferite sono semplici bruciature procurate dai denti, intrecciati con rozza canapa, di funi e sagole. Il mostro non l’uccide al termine di uno scontro titanico. Semplicemente il suo Leviatan abbocca e si lascia catturare, certo non senza lottare a lungo. Ma Moby Dick, la cui numinosa luce bianca si rifletterà per sempre su Achab, appartiene ad un altro universo, all’empireo degli Eroi.
E Santiago dopo 84 giorni di disperato vuoto, di inutile sciabordare, di lenze mai tese, di ami e reti gettati invano a lacerare il seno per lui avaro di Teti, avverte l’eco vicinissima della fine. Solo Manolo, il giovane Manolo, gli sta vicino, gli vuole bene, soffre con lui della sua senescente impotenza. Ha imparato a pescare dal vecchio. Ma soprattutto ha appreso e assimilato lo stile di una vita fatta di onestà, di fatica, di pericolo e di affetto. Ha assorbito, da garzone, i segreti della pesca insieme a quelli del vivere frugale di Santiago.
Un vivere modesto che si agita quotidianamente in vista delle coste caraibiche. Ma ora è diverso. Questo viaggio, questa battuta di pesca che è di caccia, questa singolar tenzone che ha per lizza un’immensità blu, Santiago vuole combatterla da solo. Il ragazzo deve costruirsi un futuro che ormai il vecchio e sfortunato pescatore non è più in grado di indicargli. Ma, Santiago lo sa, la fortuna non esiste. Esiste solo il suo contrario che si disperde sempre in una inarrestabile vecchiaia; un lento e irreversibile decadimento appena attenuato da ricordi di carta stropicciata che si sostituiscono con frequenza sempre maggiore alla realtà. E se esiste, la fortuna, la si affronta come se fosse un nemico, o un fratello pesce. Anche se le energie sono ormai assopite. E allora “dentro, più dentro, dove il mare è mare”. L’orcaferone si trasforma, qui, in un gigantesco marlin, il pesce spada dalla grande pinna dorsale. Santiago parte solo. Per vincere. Per vivere. Per tornare alla sua baracca.
La prosa di Hemingway, ruvida ed essenziale, si dipana tagliente come la sottile linea nera che per tre giorni separa l’azzurro intenso sopra la testa del vecchio dal blu cobalto che sta sotto la barca. Due cieli, in realtà, si contendono l’uomo. Un paradiso celeste e lontano che suggerisce al pescatore ogni più lieve manovra della barra; che gli indica la strada con la luce del sole e delle altre stelle. E l’altro, liquido cielo più vicino ma anche meno amico, cerca sempre di nascondergli o di strappargli la preda. Di ingannarlo, di illuderlo, di ammaliarlo con invisibili sirene. Ma Santiago sa da mille secoli come difendersi e come attaccare. Almeno così crede e spera.
C'è anche, quasi nascosta fra le pagine intense della narrazione, una splendida storia d'amore. Emerge dai flutti verde azzurri e s'inabissa nella morte che nasce, come sempre, dall'amore. Come accade all'uomo che spesso vuole fare il bene e produce il male. Senza colpa, senza volontà, senza capire il destino che opera cieco e sordo alle contrazioni disperate del cuore.
“Il maschio lascia sempre nutrire prima la femmina...” . Irrimediabile atto d'amore dalle conseguenze funeste e disperate. L'amo intaglia con ferocia nella schiuma ondivagante una sentenza inappellabile. “...tutto il tempo il maschio le era rimasto accanto incrociando la lenza e roteando con lei sulla superficie”. La fine è rapida e si incarna nel dolore liquido del mare quando “...il colore dell'animale divenne quasi simile a quello del rovescio degli specchi...”. Il colore del sangue rappreso, della morte che serve alla vita. Pesci come uomini, uomini come pesci.
“È stata la cosa più triste che abbia mai visto, pensò il vecchio. (...) e le abbiamo chiesto scusa e l'abbiamo squartata senza indugi.” Si scusa e squarta in fretta, Santiago mentre Manolo, come lui incolpevole attore, apprende l'arte universale di uccidere per vivere. Arte che l’uomo da sempre, spesso con abominevole inversione, declina. Ma non basterebbe non nascere? No, non c'è scelta. Santiago, noi tutti con lui, non ne ha la possibilità, legato a quel servo arbitrio che ci precede e immobilizza con ferri indistruttibili. Il vegliardo ne è oscuramente cosciente: “Forse non avrei dovuto fare il pescatore, pensò. Ma è per questo che sono nato.” L'angoscia del vivere si fa parola additando l'irrevocabile futuro rinchiuso in un presente indecidibile.
Pagine memorabili scolpiscono la lotta fra l’uomo e il mare, fra pesce e pescatore. Santiago è debole perché vecchio e fa vela, come tutti, verso un altrove irraggiungibile, immenso anello della catena prometeica che con ferrea tecnica imprigiona il dolore nel mondo.
Il piccolo Achab conosce una breve vittoria quando il grande marlin galleggia vinto e avvinto alla barca che sciaborda lenta verso il porto. Ma vincerà il mare. Il mare, alla fine, vince sempre. Anche Ulisse abbandona gli agi di Itaca e le dolci attenzioni di Penelope per accorrere di nuovo al richiamo dell’onda che culla ogni speranza. Le sirene non possono essere ignorate due volte e nessuno ha scritto una seconda Odissea.
Nella storia di Santiago gli squali si muovono con instancabile impegno agli ordini della fortuna nemica. Il pescatore vede scomparire pezzo per pezzo la sua vittoria. Gli occhi azzurri però non cedono allo sconforto. Mai. Anche se sono rimasti gli unici a combattere contro il mare. Siamo in pieno mito: “Si è difeso da vecchio, con gli occhi”. (Cesare Pavese, “Dialoghi con Leucò” - l’uomo lupo). Santiago e il vecchio Licaone combattono fino alla fine come sanno, come possono. Ma la lotta è solitudine e le mascelle degli squali sono feroce moltitudine. Anche il folle comandante del Pequod vede schiere di pescicani che attaccano furiosi la balena appena fissata alla fiancata della nave. Ma il mostro è talmente smisurato che ne resterà sempre abbastanza. Santiago non caccia balene ed è costretto a combattere e a perdere, come Romeo, contro l’invincibile “giogo delle avverse stelle”.
Sacrificio inutile. Il fratello Marlin, indomito Abele ucciso da un povero Caino, non sfamerà l’uccisore. A terra approda solo una enorme lisca, monumento all’inutilità della vita, che il mare si riprenderà.
La storia del vecchio pescatore cubano finisce nella penombra della baracca. Disteso su un misero giaciglio, sembra addormentato. Ma, noi lo sappiamo, sta ascoltando il tocco angusto di una campana che suona per lui. Per tutti noi.
Ma davvero, Santiago, “L'uomo non è fatto per la sconfitta” ?