I discorsi ellittici dei personaggi,
l’ossessiva vocazione di un “nulla”
che riassumerebbe la malattia del dolore,
designano un naufragio delle parole
di fronte all’affetto innominabile.
Julia Kristeva
“Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi.” Le prime righe costituiscono l’addensarsi di una confessione che si immerge in una spietata premessa autobiografica. Anche se i testi di Marguerite Duras più che intenti autobiografici denunciano spinte, o meglio pulsioni, autoanalitiche pur se prive di lucidità clinica.
Con bruciante immediatezza la scrittrice, giornalista, sceneggiatrice, ci presenta le tre fatali illusioni alle quali si aggrappa: l’illusione dell’amore; l’illusione della giovinezza; l’illusione della vita. Lo sconosciuto che l’avvicina all’inizio de “L’amante” esprime la prima: “…io sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane”.Un volto che “…ha mantenuto gli stessi contorni, ma la materia di cui è fatto è andata distrutta.” Il “tardi” è già “subito”, qui e ora. Ha inizio senza premesse l’annullamento degli interstizi temporali cui Marguerite Duras piega con durezza tutte le sue narrazioni. Non si tratta di flash back, né di fratture cronologiche; neppure di discronie tecnicamente significative. Semplicemente la parola scritta ignora le convenzionali istanze legate al flusso temporale e alle sue regolarità che vengono disperse con pervicace nebulizzazione sintattica. Testo e lettore vengono in tal modo sospinti in una regione metatemporale caratteristica dell’inconscio, o del preconscio, che l’autrice sottopone ad un tentativo prospettico dichiaratamente inutile però decisamente produttivo non solo sul piano della suggestione formale.
Ma non si prova disorientamento. Al più leggera fatica nel seguire le sincopi stilistiche che percorrono l’opera della Duras. Anche se il bisturi analitico che Julia Kristeva affonda senza pietà nel corpo dei testi durassiani, non rivela nulla di sconosciuto sul piano dell’espressione scritta, quando parla di “… stile goffo, maldestro…” di “…estetica della goffaggine…” di “…frasi stiracchiate, prive di grazia sonora…”. Anche se, si affretta ad aggiungere, nella scrittura della Duras “Cè tuttavia un certo fascino…” . La tentazione strutturalista piega la mano della Kristeva. Alla quale più che il testo leggibile interessa la parola illeggibile, interiore e profonda.
L’illusione della vita, dicevo, la cui espressione compiuta è il traghetto che attraversa il Mekong e che trasporta, insieme a Marguerite quindicenne, anche l’altra de-lusione originata dall’illusione dell’amore. Significativamente il natante e la giovane Duras non puntano mai verso la foce, verso una meta. Non seguono uno sviluppo lineare: Non c’è un inizio né una fine essendo lo scorrere dell’acqua, disperata speranza, eraclitea illusione. Il traghetto non solca le acque torbide del fiume. Può solo percorrerle graffiando la superficie impenetrabile. Ogni profondità, ogni sbocco è precluso. La vita può solo cercare la longitudine chiusa tra due sponde in perenne oscillazione il cui sterile moto alternato non avvicina né allontana dallo sbocco al mare, in un’insensata navigazione attraverso un mondo “...che non ha primavera, non ha risvegli.” Nessuna latitudine è consentita. Non c’è il “risveglio” di una foce. Solo solitudine “…in un viaggio che ha per destinazione la vanità e il vento…”
Due soluzioni sono possibili, ma non necessariamente alternative: l’alcool e la scrittura. Marguerite le pratica intensamente, assiduamente entrambe: “Ho vissuto sola con l’alcool intere estati. (…) Ho bevuto subito come un’alcolizzata. (…) L’alcool è stato fatto per sopportare il vuoto dell’universo, l’oscillare dei pianeti, il loro ruotare imperturbabile nello spazio”. (M. Duras: “La vita materiale”; pag 23 - 25. I Narratori. Feltrinelli.). Senza però “…riuscire ad arrivare alla sostanza delle cose.” Illusione, appunto. Come l’illusione autobiografica poiché “La storia della mia vita non esiste”. Nessuna storia è possibile: “Scrivere non è raccontare storie: È il contrario di raccontare storie. È raccontare tutto insieme. Raccontare la storia e l’assenza di questa storia” (ibid. pag. 34). La narrazione percorre dunque altre regioni “…vaste zone dove sembra che ci fosse qualcuno, ma non è vero”.
Tra una sponda e l’altra della vita - fiume, sulle acque impenetrabili si materializza infine una terza possibilità - illusione: l’amore. L’amore rappresenta immediatamente i tratti di una passione che non l’abbandonerà più. Come l’alcool, “…dopo è sempre terribile…” perché è “…proprio come morire…”. La vita puzza sempre di morte. C’è sempre una madre che ti dona l’una imponendoti l’altra. Si apre così, con purissimo amore “…il baratro che mia madre mi annuncia sempre…”.
La madre. I fratelli. La famiglia. Habitat psichicamente e fisicamente devastante le cui patologie originarie vengono aggravate a dismisura dalla frantumazione del potere politico, economico, sociale già in atto del colonialismo francese in tutta l’Indocina. La disfatta di Dien Bien Phu non è lontana.
Così la famiglia appare “…di sasso, pietrificata, chiusa in uno spessore inaccessibile”. Opaca sedimentazione amniotica che preclude ogni contatto, spegne ogni sguardo. Guardare “Significa abbassarsi. È sempre disonorevole, non c’è nessuno che valga uno sguardo”. Insopportabile kenosis del contatto.
E il tempo continua ad andare in pezzi. Frantumato, distorto, annichilito dalla parola scritta da Marguerite Duras, esploso in mille frammenti irriducibili. Ora ha 17 anni, quattro righe dopo ne ha 15 e mezzo. Disorientamento temporale assoluto, indecifrabile come la cronologia dei sogni. Ogni coordinata evapora e muore. L’ultima riga parla di amore. Di quell’amore. E di morte.