Vivere con l’odore della morte addosso. Questa era l’esperienza quotidiana dei malati di lebbra. Era una cosa terribile percepire con tutti i sensi l’essere mangiato dalla morte. La morte vissuta addosso e la morte attorno perché isolato, evitato, emarginato. I ciechi, gli zoppi, i sordi e i muti potevano avere la possibilità di qualche contatto con gli altri, potevano essere accuditi, ospitati e anche curati in contesti famigliari e comunitari, potevano avere il dono di qualche vicinanza che li preservava almeno dal dolore della solitudine.
Ai lebbrosi erano assolutamente precluse queste possibilità. La lebbra rende impuri, e il lebbroso contaminato è pericolo di contagio da cui difendersi con tutte le migliori energie e strategie. L’unico “conforto”, per modo di dire, poteva essere la compagnia di altri condannati a morte. Potevano aiutarsi vicendevolmente, insieme piangere, pregare sperare e attendere un dono impossibile.
Insieme, in dieci, si recano da Gesù. Avevano trovato almeno questa cosa positiva: la condivisione del dolore e magari anche di qualche timida speranza. Insieme si rivolgono a lui con una preghiera bellissima: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”.
Lo chiamano per nome, sicuramente così significativo per loro. Gesù cioè “Dio salva”. Lo chiamano “Maestro”, rivelano il motivo profondo del loro riporre in lui ogni speranza. Qualcuno li aveva messi a conoscenza degli insegnamenti di Gesù. E la straordinaria novità racchiusa nelle sue parole era diventata nuovo sogno, nuova speranza nel loro cuore. Avranno anche colto nelle sue parole che volontà di Dio è essere riconosciuto davvero come Padre misericordioso, follemente innamorato di ciascun uomo visto sempre e comunque come suo figlio. E l’hanno pregato con una preghiera umilissima ma nello steso tempo coraggiosa “abbi pietà di noi”. Non possiamo avanzare nessuna pretesa… “non possiamo offrirti nulla in cambio ma tu, se vuoi, puoi donarci ancora vita, una vita buona, vera e bella”.
Gesù si prende cura di loro, accoglie la loro preghiera e la esaudisce in un modo molto delicato. Non vuole solo che la lebbra sparisca dal loro corpo ma vuole che sparisca dalla loro vita anche l’emarginazione, la solitudine. Vuole che possano tornare a vivere in pienezza la vita del popolo di Dio, voleva che avessero presto la possibilità di essere riammessi nella vita della comunità dei credenti. “andate a presentarvi ai sacerdoti”.
Uno di loro non arriva dai sacerdoti, vistosi guarito ritorna pieno di gratitudine da Gesù e Gesù accogliendolo ci aiuta a capire che avrebbe voluto offrire a tutti e dieci la possibilità di dono ancora più grande di quello della guarigione fisica: il dono della salvezza. Cioè la possibilità di avere a che fare con la verità di Dio, di passare dal dono ricevuto a un rapporto d’amore vero, concreto con colui che vuole far fiorire in tutto e per tutto la tua vita. Essere salvati è più che essere guariti, è l’essere introdotti nell’amore ricevuto e nell’amore donato come senso ultimo della vita.
La gratitudine è comunione profonda con il Dio della vita e, di fatto, concretamente, proprio mentre ringraziamo, aggiungiamo vita divina alla nostra vita.