La Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
J. L. Borges
Uno stile piacevole, fluido, con alcuni picchi di efficace policromìa. Un tessuto narrativo denso di fenomeni carsici che si moltiplicano in una inarrestabile cascata combinatoria. Una selva fitta di personaggi realizzati a sbalzo con decoroso mestiere. E, come è inevitabile, uno o più misteri che alla fine, solo alla fine ovviamente, vengono svelati.
Meglio: dissolti. O, se preferite, gradualmente disciolti in una soluzione ad alta concentrazione iniziale, addirittura supersatura, che dopo qualche decina di pagine inizia irreparabilmente a perdere di intensità, di peso, di colore per concludersi quando “…figure evanescenti, padre e figlio si confondono tra la folla delle ramblas, mentre l’eco dei loro passi si perde per sempre nell’ombra del vento” insieme all’attenzione di chi legge le 439 pagine del “…libro più venduto in Spagna dopo il Don Chisciotte”. Parola di Internet.
Tanto vento e niente arrosto dunque. Anche se sono numerosi i lettori entusiasti che affollano i blog nei quali ci si occupa con accenti superlativi del romanzo d’esordio di Zafòn.
Un testo che, a dispetto dei necessari ma non sufficienti meriti di cui si diceva all'inizio, si perde per strada finendo in un intrico inutilmente ingarbugliato di oscurità grandi e piccole, di arcani misteri dei quali, quando si materializza la scontata conclusione, non c’è più traccia significativa e catarticamente gratificante come ci si aspetterebbe da in ogni romanzo di genere che si rispetti. Insomma i buoni sono buonissimi; i morti sono mortissimi; i cattivi sono cattivissimi e bruttissimi (ma ci sono almeno un paio di buoni-brutti); i libri sono articoli per bibliomani compulsivi pronti a sacrificare la propria e l’altrui vita per scriverli, leggerli o distruggerli. Anche se del loro contenuto nulla o quasi si dice nella narrazione di Zafòn. E quelli più interessanti sono gelosamente custoditi nell’immensa biblioteca chiamata Cimitero dei libri dimenticati.
Dove, prima o poi, troverà posto anche il romanzo di cui si tratta qui. “L'ombra del vento”, appunto. Un libro che parla di un libro. Un meta romanzo. Ovvero un romanzo a metà nel quale buonismo e cattivismo vengono spalmati, certo con buona tecnica, sulle vicende che partono da una biblioteca che odora molto di Nome della rosa, un po’ di Borges e un tantino, ma solo un tantino, dei disegni transfiniti di Maurits Cornelis Escher: “Era un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalla geometria impossibile”. Zafòn non è Eco, né Borges, tantomeno Escher.
Il risultato è un polpettone di bell’aspetto, azzimato e profumato come si conviene, in tempi di micragnosa editoria, ad ogni best seller. C’è dentro tutto, ma proprio tutto: cuori infranti, omicidi, amicizie spezzate, tradimenti, torture e pestaggi, incendi e figli diseredati, donne sofferenti per amore, guerra civile e incivile, poliziotti crudeli e poliziotti buoni, cripte dotate di apposite bare dotate di appositi cadaveri, fughe a Parigi, capitani d’industria decaduti, la penna stilografica di Victor Hugo, vecchie dimore patrizie abbandonate alla rovina. Dovrebbe esserci anche qualche porta che cigola sinistramente ma non ne sono certo. Per capirci: un plot che piacerebbe a Dario Argento, il grande guitto horror de noantri.
Il lettore si trova così a degustare (parola grossissima) una sorta di Big Mac dal sapore indefinibile e di sospetta digeribilità le cui premesse, come abbiamo spiegato, consistono in una biblioteca gigantesca, l'importanza della quale, nello sviluppo dell'azione svanisce col procedere della narrazione. Una struttura immensa che odora “…di polvere e di magia”. Nemmeno Harry Potter potrebbe esprimere un nonsenso così banalmente perfetto. Né potrebbe lasciarsi “…trascinare in un turbine di emozioni sconosciute…” mentre il campanile della cattedrale batte… Indovinate un po’ che ora è. Difficile, no? Ma provateci uguale.
E poi ci sono i personaggi il cui spessore psicologico, senza eccezione alcuna, non supera il micron. Dopo qualche pagina dalla prima comparsa del “misterioso” individuo (adeguatamente sfigurato in volto da qualche tremendo accidente (tranquilli il mistero sarà chiarito) anche il lettore poco meno che distratto capisce di chi si tratta. E come può chiamarsi l’ispettore della policia di Barcellona cattivo e puteolente se non Fumero? Quasi onomatopeico. Sapete che fine farà? Non ve lo dico per non rovinarvi il clamoroso finale. Dimenticavo una precisazione necessaria: Zafòn non è un alias di Conan Doyle .
Insomma, per non farla lunga, “L’ombra del vento” è un agguerrito candidato per un posto d’onore all’interno del “tempio tenebroso” di cui sopra, dove si respira “…profumo di carta e magia.” come scrive Zafòn, con ispirato e illuminato lirismo, in un altro best seller, (“Il gioco dell’angelo”). Meglio, molto meglio, l’interminabile serie di J. K. Rowling nella quale, almeno, la magia non è una metafora umidiccia e maghi e maghetti cavalcano scope biturbo e ci danno dentro di brutto fregandosene platealmente della propria e altrui credibilità. Zafòn, invece, si prende molto sul serio. Un peccato mortale perpetrato in presenza certa di materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso.