Che gli Alpini siano il corpo militare più amato dagli Italiani, soprattutto al Nord, non è una novità. L'accoglienza e , diciamolo pure, l'affetto, che la presenza del 9* Reggimento della Brigata Alpina Taurinense hanno ricevuto in Valsassina, nel corso di una settimana di alloggiamento ed esercitazioni, ne sono state un'ulteriore prova ("Siete bellissimi !", gridava qualcuno ieri dalle strade di Pasturo) .
Quando si pensa agli Alpini, fondati 150 anni fa nel 1872, si pensa alle epiche battaglie della I Guerra Mondiale sul Carso e sul fronte del Piave. Nella II Guerra Mondiale invece sono stati utilizzati tra l'altro in Montenegro, in Yugoslavia, e nello sciagurato attacco alla Grecia (a cui dovevamo "spezzare le reni"), iniziato in una data sbagliata, alla vigilia dell'Inverno, 28 Ottobre 1940, il 18* anniversario della Marcia su Roma, in condizioni meteorologiche che causarono il congelamento di molti Alpini sulle montagne del Montenegro. Se già lì molti cominciarono a dubitare della pessima organizzazione con cui l'Italia era stata buttata nella Guerra (mi rifaccio soprattutto alle testimonianze orali di Mario Cerati, Capitano Alpino originario di Introbio) il disastro più noto e definitivo fu la partecipazione alla Campagna di Russia, voluta personalmente da Mussolini nel Giugno del 1942.
In realtà gli Italiani c'erano già da tempo in Russia, dal Luglio 1941, a fianco dei "Kameraten" Tedeschi: circa 60.000 uomini inquadrati nel CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) al comando del bravo Generale Giovanni Messe. Il quale aveva cercato inutilmente di convincere Mussolini a desistere dall'idea di inviare altre truppe in Russia, visto anche che i Tedeschi mal ci sopportavano (addirittura alcune camionette tedesche si erano rifiutate di trasportare feriti italiani).
Ma il Duce fu irremovibile: si trattava soprattutto di un'operazione di propaganda. Venne allestita così l'Armir, 230.000 uomini mal equipaggiati, male armati, e soprattutto appiedati: non starò a ripetere diverse cose già note anche nella storia e nella letteratura italiana, ma mi soffermo su due particolari non secondari, la partenza e il ritorno di questi soldati.
La partenza, nel Giugno 1942, fu tutto uno sbandierare di fanfare , bande, trombe e bandiere a ogni stazione ferroviaria, che dovevano celebrare i nostri Alpini in viaggio verso la Russia. Cosa ci andasse a fare un corpo pensato per la montagna in un territorio di pianura e steppe come la Russia nessuno l'aveva capito molto bene (forse perchè erano abituati al freddo ?). Peccato poi che i treni si fermassero a 120 km dalle postazioni sul Don che gli Alpini dovevano presiedere. Gli ultimi 120 chilometri a piedi furono abbastanza faticosi, ma i soldati presero le loro posizioni sul fronte russo meridionale e costruirono le loro difese.
Il ritorno, dopo che i Russi scatenarono nel Natale del 1942 l'offensiva del "Grande Urano", fu tutta un'altra musica. Le famose "centomila gavette di ghiaccio" si trascinarono faticosamente verso il confine: la durissima battaglia di Nikolaevka, ricordata giustamente ogni anno agli inizi di Febbraio a Colico, con cui a costi durissimi riuscirono a evitare l'accerchiamento e la cattura di tutta la spedizione, garantì la loro salvezza.
Ma in quali condizioni ? E qui mi rifaccio alla testimonianza di un Alpino valtellinese del "Morbegno", Primo della Bosca, tramandatami da sua nipote in una tesina scolastica per la Maturità al Parini serale.
Episodi confermati anche da alcuni storici importanti come Renzo de Felice. Saputo del disastro, Mussolini ordinò che gli Alpini venissero riportati in patria nella massima segretezza (niente più fanfare e bandiere !).
Dei vagoni con i vetri oscurati o addirittura piombati furono mandati nelle vicinanze del Brennero: la stragrande maggioranza dei soldati, esausti, mutilati o feriti, ridotti a circa un quarto rispetto alla partenza, furono inviati all'Ospedale Militare di Roma, senza che nessuno potesse incontrarli.
Una volta dimessi dall'Ospedale, fu ordinato loro di non parlare con nessuno della loro esperienza in Russia, e tantomeno di formulare critiche allo Stato Maggiore. Naturalmente molti Alpini, da bravi soldati obbedirono, ma c'era poco da voler tenere nascosto: le loro condizioni parlavano da sole !
I parenti e gli amici che finalmente potevano rivedere i loro cari, almeno quelli fortunati che erano riusciti a tornare a casa, non avevano bisogno di molte spiegazioni per capire che cosa era successo. Fu come uno squarcio che si aprisse, una finestra aperta dopo vent'anni di chiusura e di propaganda. Il consenso al Regime Fascista, che era stato all'apice fino al Giugno del 1940, crollò improvvisamente come un castello di carte.
Non a caso dal Febbraio del 1943, quando tornarono gli Alpini, fino al 25 Luglio di quell'anno, Mussolini smise di dare discorsi inutili e retorici dal balcone di Palazzo Venezia. Anzi, si dette malato per molti mesi, accusando la recrudescenza di disturbi intestinali che lo avevano colpito fin da giovane. Il Regime entrò in uno stato di agonia e di catalessi: persa definitivamente la "Guerra d'Africa" e finito il glorioso "Impero", subita l'umiliazione in Russia, mentre invece i Tedeschi resistevano tenacemente (ci vorranno altri due anni ai Russi per arrivare ai confini della Germania) venne finalmente al pettine la corruzione del regime fascista, la disorganizzazione, la cialtroneria con cui erano state mandate allo sbaraglio le migliori truppe dell'Esercito Italiano.
Insomma, uno squarcio di verità che portò alla fine del Regime, quando poi, dopo l'invasione americana della Sicilia il 25 Luglio, Mussolini venne finalmente esautorato dal Re Vittorio Emanuele III.
Finita lì ? Nient'affatto. Quando, dopo l'8 Settembre 1943, gli avieri di Von Student, liberarono Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso, e il Maresciallo Graziani richiamò alle armi tutti i giovani nati tra il 1922 e il 1925, sotto pena di fucilazione loro o dei loro parenti, molti Alpini, come tantissimi giovani, furono a un bivio. Tornare a servire per un Regime che aveva dimostrato tutta la sua protervia e la sua disumanità, oppure rifiutarsi e creare delle bande armate che aiutassero le forze alleate e il Re legittimo di stanza in Sud Italia ? Molti di loro fecero la scelta giusta: non è un caso se le prime bande partigiane anche in Valsassina fossero state guidate da ex Alpini che scelsero ancora una volta la montagna, come il Capitano Mario Cerati a Introbio o il Tenente Battista Todeschini a Premana (fucilato nel 1944).
Erano del resto gli unici che sapessero usare le (poche) armi di cui i Partigiani disponevano: il loro contributo fu indispensabile e decisivo, fino alla conclusione della Guerra, il 25 Aprile 1945.
Ripensando a queste cose, si capisce allora che l'Italia e gli Italiani hanno un grosso debito con gli Alpini: celebriamo sicuramente le battaglie in cui si sono distinti, ma non dimentichiamo anche questi episodi che hanno avuto un'incidenza davvero rilevantissima nella recente storia italiana.