Mala tempora currunt. L'altro ieri l'Italia politicamente corretta era stata messa a soqquadro dalla sortita dell’incartapecorito Berlusca che ha chiesto a gran voce le dimissioni di Mattarella in caso di riforma presidenzialistica della Costituzione. Non fraintendetemi ma si stava meglio quando si stava peggio. Un tempo, almeno, erano i comici a improvvisarsi politici e a fondare partiti. Pardon: movimenti. Non viceversa. Però anche il tycoon de noantri si è sempre vantato di aver calcato palcoscenici e balere canticchiando motivetti e raccontando barzellette. L’ultima delle quali, appunto, riguarda il Presidente della Repubblica. Però lui, il barzellettiere di Arcore, ha smentito con forza. Con quale argomento? Il solito impugnato da chi spara pirlate e poi si pente: sono stato frainteso. Certo, se ci guardiamo alle spalle erano altri tempi. Tempi di impegno politico arrembante e di impegno sociale forse velleitario ma (sempre forse) ingenuamente sincero, ancorchè spesso scriteriatamente nazional popolare. Ora, con gli onnipresenti Salvini e Meloni, si può parlare al massimo di nazional populismo, che del primo è metamorfosi degenerata e deforme. La “candidatura” del Grillo parlante, che dal palco in piazza invitava con foga tribunizia a votare vaffa contro tutto e tutti, sembra oggi poco più che una boutade da cabaret. Dalla quale però è emerso con effetti dirompenti (non solo per il magma pentastellato) un avvocatuccio del popolo diventato primo ministro e, oggi, competior interno del padre “nobile” del Movimento. Il Beppe nazionale, immergendo destra e sinistra nel calderone maleodorante e peggiocapente del “sono tutti uguali” era quasi commovente nella sua plateale rozzezza.
Persino l’ex delfino, il paucizazzeruto Di Maio, adesso si affretta a sostenere che uno non vale uno. Dice: ma allora si pensava al nuovo che avanza. Proprio come i rifiuti di Napoli e di Roma i quali in un certo senso “avanzano” anche loro grazie alla politica corrente la quale in realtà non corre ma sta ben salda e gattopardescamente immobile da anni (decenni) arrotolandosi su se stessa senza produrre novità positive. A dire il vero un novità c’è. Minuscola ma reale. Il “nuovo che avanza” risede tutto in quella biondina dagli occhioni azzurri autocandidata alla presidenza del consiglio. Sì, proprio lei: la Giorgia “madre e madrina della vecchia destra truccata di nuovo” (la Repubblica, 14/08/2022). Guarda al Viminale la sorella d’italia con la fiamma tricolore nel cuore e va in bestia se qualcuno le fa presente che forse, quel simbolo ricorda troppo da vicino i tempi bui del Ventennio e del suo massimo erede, il leader missino Giorgio Almirante che ancora oggi vive nelle nostalgiche ambasce di qualcuno. In questo desolante panorama politico fa la figura del gigante il ministro Brunetta che ha nobilmente e pubblicamente dichiarato che non si ricandiderà alle elezioni di settembre. I malpensanti sostengono che dopo la defezione da Forza Italia, l’economista veneziano ed ex capogruppo forzitaliota, non avrebbe comunque trovato spazio nel futuro Parlamento a scartamento ridotto.
Dimenticavo l’altra, clamorosa novità: la rottura del patto fra Letta e l’incamiciato Calenda e il sodalizio successivo di quest’ultimo con l’acerrimo amico Renzi. Due eventi del tutto imprevedibili, no? Però almeno Letta un fatto nuovo l’ha annunciato. Girerà l’Italia su un pullmino elettrico. Qualcono ha detto che l’elaborazione teorico politica a sinistra ristagna. Ma va là! È solo diventata green. Tra le file del PD e le pagine ingiallite dell’Agenda Draghi (qualcuno se la ricorda?) spira una brezza fresca e fragrante. Per buona misura sul carro di Tespi dell’agone elettorale non poteva mancare l’insulto in forma di body shaming, come dicono i poliglotti, forse di ispirazione berlusconiana. La sortita social della quasi moglie del Cavaliere diretta al ministro Brunetta, risale a venti giorni fa ma gli echi del fattaccio risuonano tuttora. Beh, ma accostare un uomo politico, non molto alto, ai nani di cui parla De André in una sua famosa canzone, rivela un intento satirico, dunque perfettamente lecito. Un antico adagio meneghino recita pressapoco così: ofelee fa el so mestee. Trad.: il pasticcere faccia il suo mestiere. Ergo: la satira è meglio lasciarla ai satiri, che la fanno per lavoro da una vita. La quasi signora Fascina dovrebbe limitarsi a fare la bella statuina al fianco del noto spregiudicato miliardario arcoretano. Ecco.
Però mi pare che il problema sia generale. Se decade la politica, ne risente anche la satira. Intendo dire che ad una politica di basso profilo non può che corrispondere un'antagonismo culturale (e la satira come la comicità è cultura) analogamente minuscolo. In un mondo di ciechi gli orbi sono dei privilegiati. Mi costa molto dirlo. Ma temo che l'agire politico più si abbassa per raggiungere livelli sempre più alti (sì, la vedo la contraddizione) di democrazia, più diventa incapace di manifestare una progettualità adeguata ai compiti della modernità e della globalizzazione, con una transizione semnpre pù veloce dal politicamente corretto al politicamente corrotto. Insomma, in questa democrazia (ma ce n'è un'altra?) si assiste ad un rovesciamento dei paradigmi non solo ideologici: invece di elevare la capacità di analisi dei cittadini ed estendere la partecipazione dei popoli a un idea più "alta" di società e di governo, è la politica ad abbassarsi, ad imbarbarire, a perdere efficacia culturale e, dunque, democratica. A "leghizzarsi," insomma. Forse è inevitabile. Forse esiste una legge di proporzionalità inversa fra estensione quantitativa della democrazia e sviluppo qualitativo della classe politica e della sua capacità di elaborazione dei processi sociali e culturali. Se è vero occorre ripensare al modello occidentale di democrazia. Forse De Tocqueville va messo definitivamente da parte.
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