La descrizione fedele (anche iconografica) delle aberranti “distruzioni di masse” riferite con icastica evidenza dalle parole di Ceresa, ben raffigurano gli esiti di una cultura (absit iniuria verbis) come quella afghana, stratificatasi in millenni di storia. Il tutto immerso nel cemento non biodegradabile di una aberrante interpretazione e applicazione dei precetti coranici. Cultura tribale, certo, e per questo difficilmente modificabile in tempi di prospettiva non storica. Come ha efficacemente scritto Enrico Baroncelli “quei guerrieri che sono un tutt’uno con le loro montagne pietrose ed aride, insensibili e cinici, rozzi duri e violenti quanto si vuole, non sono mai stati sconfitti nella Storia”. È vero, inoltre, che l’Occidente non ha ancora davvero capito che esiste anche un Oriente (non c’è solo la Cina di Wuhan o della bannatissima Huawei) con il quale è necessario fare i conti, dialogare, anche a muso duro quando inevitabile. Ma occorre individuare con grande cautela e precisione i canali di contatto, diplomazia in primis, da utilizzare.
I quali, come spesso accade, si trasformano da mezzi in fini, da strumenti in obiettivi diventando in qualche modo “autonomi” e vivendo di vita propria. È il caso delle strutture utilizzate negli interventi militari a lungo termine per la cosiddetta pacificazione che, dopo un certo tempo operativo, divengono sempre più problematici da “disattivare”. In particolare per le operazioni, inevitabili prima o poi, di abbandono dei teatri di guerra. A quanto pare, poco o nulla abbiamo imparato dai dieci anni di occupazione manu militari dell’Afghanistan da parte dell’Unione sovietica. Meno ancora dal ventennio USA in Afghanistan. Né dalle operazioni militari condotte con i medesimi obiettivi e identici mezzi in altri scacchieri: Iraq, Siria, Libia. Non c’è nessun bisogno di scomodare la storia parlando del Vietnam. La cronaca è più che sufficiente. L’Occidente militarista, come sempre rappresentato dalla bandiera a stelle e strisce, ne è sempre uscito con le ossa rotte. È ormai consolidata esperienza: la democrazia non si può esportare con i carri armati e i caccia bombardieri. Soprattutto se carri armati e caccia bombardieri sono erano stati elargiti generosamente agli amici di ieri trasformatisi improvvisamente nei nemici di oggi.
Per questo l’autocrate che siede al Cremlino si sta proprio in questi giorni fregando le mani con aria soddisfatta. Imitato dal suo omologo con domicilio a Pechino.
Ma mi sembra necessario ritoccare qualche espressione tranchant sull’esfiltrazione (ormai di questo si tratta) dei soldati usa e del personale d’appoggio. Operazione complessa ed estremamente delicata che però, occorre sottolinearlo, non è affatto iniziata con la presidenza Biden. Anche se molti, oggi, da destra e da sinistra, sembrano ignorarlo. I primi rimpatri di soldati americani e attrezzature belliche dall’Afghanistan, infatti, erano partiti molto tempo prima e avevano subito un’accelerazione sotto la presidenza Obama nel 2015 quando il presidente usa aveva riferito che “circa 5000 soldati americani vi resteranno anche dopo il 2016, mentre il piano di ritiro prevedeva la sola presenza di un'esigua forza militare nell'ambasciata Usa a partire dal 2017”. fonte
A quell’epoca il contingente USA in Afghanistan era già passato da circa 100mila effettivi a meno di 10mila. Quindi nessuna sorpresa o mossa improvvisa da parte di Biden. Il quale ha certamente “cannato” alla grande le previsioni parlando di mesi invece che di giorni. Vogliamo parlare un po’ di Trump allora? Benissimo ecco qua. Il tycoon dalla zazzera ossigenata nell’aprile scorso si era implicitamente dichiarato pacifista sostenendo su uno dei suoi blog che “possiamo e dobbiamo andarcene prima. Diciannove anni sono sufficienti, in effetti, troppi e troppo a lungo. Ho reso possibile il ritiro anticipato richiamando già gran parte dei nostri miliardi di dollari di equipaggiamento e, cosa più importante, riducendo la nostra presenza militare a meno di 2.000 soldati, dai 16.000 che era (allo stesso modo in Iraq, e zero truppe in Siria, tranne che per l'area in cui abbiamo TENUTO IL PETROLIO)”. Ecco che spunta i termini non metaforici la presenza del brent. E ancora: “Uscire dall'Afghanistan è una cosa meravigliosa e positiva da fare. Avevo programmato di ritirarci il 1° maggio e dovremmo attenerci il più possibile a tale programma”.
Il testo di cui sopra è però significativamente scomparso dai siti web trumpiani proprio in concomitanza del ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan e del coro di critiche alla decisione di Biden. Una conferma del doppiogiochismo del biondocrinito ex presidente? Ecco qua, in data 26 giugno 2021 le parole pronunciate da Trump durante un comizio tra fedelissimi osannanti: “Ho iniziato il processo, tutte le truppe stanno tornando a casa, non sono riusciti a fermare il processo. 21 anni sono sufficienti. Non potevano fermare il processo, volevano ma non potevano fermarlo”. Quel “non sono riusciti” è con tutta evidenza riferito all’amministrazione Biden. Dunque, per tornare a noi, qualcuno pensa davvero che i 2000 soldati usa residui avrebbero potuto rallentare in qualche misura il ritorno dei capi tribali scesi dalle montagne afghane alla conquista di Kabul? Certo la fretta è cattiva consigliera. Capita anche che a volte non si scelgano i tempi giusti. Ma davvero è tutta colpa di Biden?
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