Se la marea del Coronavirus continuerà a salire con questi ritmi, dopo le precedenti incursioni nell’alfabeto greco bisognerà trovare altre sigle. Proprio come per i tornados made in Usa. Ormai siamo agli sgoccioli: Omicron è l’ultima spiaggia nella caccia a nuove iniziali; non resterà altro che affidarci ai caratteri runici per identificare ulteriori varianti dell’agente patogeno responsabile della presente e universalmente imperversante pandemia. Anche se non tutti i caratteri greci sono stati utilizzati. Ma per la prossima variante (ci sarà, statene certi), adottare la lettera Zeta in funzione identificativa, come ha ipotizzato qualche giorno fa il nostro Zarathustra (anche qui una Zeta! Solo coincidenza?), significherebbe un passo indietro dato che si passerebbe dalla ventiquattresima ed ultima casella (Omicron, appunto) alla sesta posizione occupata nella progressione alfabetica greca dall’iniziale di zanzara; o di Zanzibar se preferite.
Ad ogni modo, siccome grazie ad una lieve modifica testuale, la madre dei dubbi è sempre incinta, ho deciso di affrontare il rischio mortale rappresentato dalla terza dose di vaccino e appena scaduti i sei mesi dalla seconda iniezione (il che si è verificato alla fine di novembre) mi sono presentato a piè fermo (le gambe però forse tremavano; ma non troppo, giusto un pochino) al Palataurus. È sabato. Appuntamento fra le nove e le dieci a.m. E ho scoperto con soddisfazione che anche le forze dell’ordine sono scese in campo contro il coronavirus. All’ingresso mi ha accolto un signore anziano con gilé arancione fluo e mascherina d’ordinanza.
Sulla schiena spicca a caratteri maiuscoli la scritta. “Associazione carabinieri”. Bravi, mi dico. Anche da pensionati i CC (Carabineri, non centimetri cubi che si scrivono in minuscolo) non smettono di essere nei secoli fedeli. “Prego sanifichi le mani col gel del dispenser e segua le scale”. Mi inoltro immediatamente aspettandomi una lunga coda di vaccinandi. Ma rimango deluso: davanti a me solo tre o quattro persone accolte affabilmente da un altro volontario ex carabiniere dai capelli bianchi e dotato di apposito smanicato fosforescente. “Aspetti un attimo lì per cortesia.” Si è trattato proprio di un attimo (coi vaccini sono fortunato: mai subìto lunghe attese o file estenuanti). Cinque minuti dopo entro nella gigantesca “palestra” denominata Palataurus costellata da decine e decine di sedie disposte in ordinatissime file parallele adeguatamente separate dalla prescritta distanza a prova di droplet coronavirali.
Mi aspettavo una folla, trovo davanti a una platea di forse trenta/trentacinque persone sedute in fila indiana (Longobarda avrebbe opportunamente suggerito, con gaddiana neakeltiké, Brancaleone da Norcia). Insomma, la megastruttura è semivuota. Segno forse che i lombardi non amano i vaccini. Ma anche che il pienone deve ancora arrivare. Insomma, per farla breve, l’ennesimo pensionato con la Fiamma d’oro sul berretto mi indirizza alla fila di sedie assegnatami. L’attesa è breve. Dieci minuti dopo il primo ago ipodermico di una siringa impugnata da una fanciulla con camice usa e getta e mascherina, si infila nel mio deltoide destro iniettando la pozione venefica dal misterioso contenuto.
“Vuole fare anche il vaccino antiinfluenzale?” butta lì con voce asetticamente insinuante l’operatrice sanitaria. Ho pensato per una frazione di secondo (molto intensamente, però) ai possibili effetti sinergicamente letali dell’accoppiata proposta. Poi ho preso il coraggio a due mani (da 25 anni mi autoinietto nel gluteo destro in modo maldestro l’intruglio antinfluenzale e sono ancora vivo) e accenno un impercettibile assenso con un movimento del capo. Tanto l’infermiera mi mostra la schiena trafficando fra siringhe cerotti e liquidi sanificanti (la prima stesura riportava “santificanti” ma mi è sembrato irriverente); forse (spero in cuor mio) non ha capito.
Ma la ragazza, che deve aver interpretato il mio silenzio come assenso, si gira rapidamente impugnando una seconda siringa e zac! Anche l’antinfluenzale è fatta. Ringrazio e saluto con un filo di voce. Mentre guadagno l’uscita, salutato dal sorriso del volontario fluorescente che accoglie il pubblico all’ingresso, ho le gambe mollicce. Però non ho paura del vaccino. Solo qualche perplessità. Mara mi aspetta in macchina e chiede se preferisco che guidi lei. “L’anestesia non ha fatto effetto – rispondo. Non c’è problema.” L’angosciosa attesa dei terribili effetti collaterali è iniziata. Nel giro di due giorni la leggera e leggermente dolorosa tumefazione alla spalla sinistra (quella dell’antinfluenzale) scompare. La spalla destra sta benone. E anch’io. Sono pronto per la quarta inoculazione. Se ce ne sarà una quinta ci penserò. Ma so già come andrà a finire: cercherò di trovare, dopo la quarta, la quinta dose di coraggio. Anche se siamo nella terra di don Abbondio. E “se il coraggio, uno, non ce l’ha…”
Pubblicato in
Opinioni