La guerra in Ucraina, che si aggiunge alle tante già in corso nel mondo, ci lascia sgomenti e increduli.
Il terrore delle persone sotto assedio, l’angoscia dei profughi in fuga, la sofferenza di chi piange i propri cari… tutto questo dolore non chiede parole di circostanza, ma un riconoscimento intimo e profondo.
Tutti vorremmo fare qualcosa contro la guerra, per la pace. Però cos’è alla nostra portata, oltre al sostegno umanitario offerto alle vittime di ogni conflitto?
Un’ora di silenzio reale, insieme in un luogo pubblico, per fare spazio alle domande di senso che possono indicarci la strada verso una pace vera e duratura.
Dentro il silenzio risuoneranno:
la denuncia dell’inerzia politica e degli interessi economici che fanno maturare e poi scoppiare le guerre;
la gratitudine verso i tanti che concretamente s’impegnano nell’aiuto e nell’accoglienza delle vittime di ogni guerra. Perché i loro gesti valgono più di molte parole.
VI ASPETTIAMO SABATO 9 APRILE, DALLE 11, IN PIAZZA CARIGNANO A TORINO
Invitiamo tutti a partecipare senza loghi o bandiere, con un indumento bianco addosso.
Con noi (Gruppo Abele, fondato da Don Ciotti, in una foto d'archivio) ci saranno anche (adesioni al 5 aprile): Binaria Centro Commensale, Libera Piemonte, ACMOS, Fondazione Benvenuti in Italia, Cooperativa Nanà.
Il coordinamento A.Gi.Te. Piemonte ci raggiungerà partendo dal suo presidio in piazza Castello.
In silenzio contro la guerra. Perché?
Perché vogliamo percepire in tutto il suo peso e scandalo la sofferenza degli aggrediti. Perché vogliamo trasformare questo sentire in sentimento e, quindi, in impegno a difendere il diritto universale non solo alla vita ma al vivere con dignità, senza più permettere che delle vite sfruttino, confischino e uccidano altre vite.
Perché questa guerra è frutto di una finta pace, una pace armata. È frutto di conflitti d’interessi tra potenti che, prima di esplodere e coinvolgere tutti in conflitti di sangue, trovano accordi contingenti sempre a scapito del bene comune universale.
Perché è una guerra figlia legittima di un’economia selettiva che uccide in “guanti bianchi”. Se un tempo la guerra era considerata “proseguimento della politica con altri mezzi” oggi – nella subalternità e inerzia di troppa politica – è economia che getta la maschera per mostrare il suo volto disumano.
Perché la tragedia della pandemia ci ha sbattuto in faccia due evidenze. La prima: siamo tutti interdipendenti. La seconda: siamo tutti vulnerabili. Preziose indicazioni per costruire una società in cui il bene individuale sia conseguenza diretta del bene comune, mai suo aggressore, oppositore o parassita. E dove gli esseri umani si riconoscano e rispettino alla luce di ciò che indistintamente li accomuna: l’essere di passaggio su questa Terra.
Perché vogliamo disertare la fiera oscena di parole sommarie e mercenarie. Per dire un silenzioso ma perentorio “no” al compulsivo vociare di opinioni e analisi che sta accompagnando il fragore delle artiglierie e dei bombardamenti, come se il problema fosse dichiarare pubblicamente da che parte stare e non trovare il modo di fermare prima la carneficina, quindi costruire un mondo dove il “no” alle guerre non sia più solo una tregua armata in vista di nuovi massacri e nemmeno solo un’aspirazione, una retorica d’occasione, un impegno scritto e sempre disatteso.
Perché pensiamo che il silenzio sia la via della riflessione e del muto dialogo con la propria coscienza.
Dialogo mai pacifico ma sempre acceso, a volte conflittuale: conflitto auspicabile, dal quale non bisogna scappare. Solo riconoscendoci infatti nei nostri errori e limiti scopriamo anche le nostre qualità e, tanto più intransigenti saremo con noi stessi, tanto più saremo capaci di comprendere gli altri, di metterci nei loro panni, di sentire il loro dolore e la loro nudità, come pure qualcuno sta ammirevolmente facendo senza troppo clamore.
Solo le coscienze inquiete sono coscienze vive. Solo chi dubita e si pone domande diventa capace di mitezza e gentilezza, le uniche vere “armi” della fragile condizione umana.
Ciò detto, sospendiamo le parole.
Il nostro non è un atto dimostrativo ma ostensivo, nel quale il significato coincide col gesto.
In un mondo in cui troppi parlano e straparlano senza sosta, il silenzio è quasi un atto eversivo, una lancinante richiesta di verità.