C'era una volta, e c'è ancora, un'osteria piccola piccola, in un paese piccolissimo che nessuno conosce all'infuori di chi ci vive. Forse.
All'interno pochi tavoli, sedie di legno abbastanza sgangherate e tovaglie variopinte. Alle pareti immancabili fotografie sottovetro ritraggono gli angoli più caratteristici del borgo e dei dintorni. Appese lì da decenni, ritraggono un mondo che non esiste più. Perfino la polvere ormai si è stufata di appoggiarsi su quelle cornici.
Con una coppia di amici prenotiamo per le 21. Il menu prevede il celeberrimo pesce stocco. Il proprietario del locale è un uomo altissimo, magrissimo, tristissimo e silenziosissimo. Ci sta aspettando. Ci saluta con un cenno, guardandoci di sbieco. Come di consueto ci elenca rapidamente lo scarno menu della casa. Dopo 30 secondi inizia a depositare sul tavolo olive, salumi, verdurine, pane, birra, vino e acqua, piatti e bicchieri. A casaccio. Senza dire una parola. Qui si usa così. Poco dopo giunge la prelibata pietanza. I tovagliolini sono rigorosamente di carta. Accanto a noi, alcuni commensali discutono a voce decisamente alta, ma non perché siano adirati: quaggiù è usanza comune maltrattare i timpani di chiunque, a prescindere. Tutti mangiano in maniera allegramente famelica qualunque cosa, spesso facendo il bis.
Intravediamo Giuseppe, un tipo simpatico e cordiale, che di mestiere vende frutta, girovagando col suo camion qua e là. Fa la spola da Bronte verso ogni dove. È alto all'incirca 1 metro e 45, con braccia muscolose. È magro come la disperazione. Non è la prima volta che lo incontriamo. Stasera indossa con algida indifferenza una meravigliosa canottiera a costine, di bossiana memoria. Ci saluta e subito si prenota per offrirci da bere. Accetto con lo sguardo e gli dico che dopo aver cenato, berremo volentieri con lui una grappa. Anche due. Lui è felice di vederci. Ama chiacchierare con noi della sua vita, del suo lavoro. Ha gli occhi tristi, stanchi, ma è persona amabile, generosa, che nella vita ha dovuto percorrere molte salite e pochissime discese. Torna a casa, in quel di Bronte, il sabato mattina, dalla moglie e nelle sue tenute, dove coltiva di tutto. Il lunedì carica il camion e riparte verso l'ovunque per vendere i suoi prodotti. Solitamente, dorme sul suo camion, dice. Ma questo pare non regalargli particolari fastidi. Non ha potuto permettersi master di qualsivoglia natura. Non è laureato. Litiga con i congiuntivi e con l'italiano, ma possiede un'intelligenza vivace che gli ha permesso di barcamenarsi alla meglio, diventando il padrone di se stesso.
Mi elenca le numerose varietà di pesche, di mele, di ciliegie. Mi racconta dei suoi continui viaggi per rivendere frutta presa qui e venduta lì, oppure di mandorle giovani da spellare e mangiare col pane. E' stato perfino in Germania, racconta con orgoglio. Viaggi epici, col suo autotreno... Io lo ascolto estasiato, degustando tutto ciò che il proprietario dell'osteria, Crocifisso, continua a accatastare sul nostro tavolo. Giuseppe si sente al centro dell'attenzione. E la cosa gli piace. Un'inarrestabile euforia gli scioglie la lingua vorticosamente. Vive eternamente in solitudine: lui, il suo camion e le sue cassette di frutta. Il signor Giuseppe ha pochi denti. Quasi tutti rovinati. Quelli che mancano glieli ha portati via uno scontro frontale con un altro camion. Ha 55 anni. Ne dimostra 10 di più, ma ha un'energia davvero invidiabile.
Non smette di chiacchierare un attimo. Prende infine una sedia e si accomoda al nostro tavolo. Chiedere il permesso lo ritiene superfluo. E mentre noi assaporiamo l'ultimo pezzettino di pesce stocco alla ghiotta, lui ci propone l'assaggio di alcuni dei suoi mitologici fichi d'india, i cosiddetti bianchetti. “I bastardoni sono terminati” ci dice con una smorfia. Mentre continua a parlare, senza prendere respiro, ci sbuccia i frutti e ce li serve. Alle signore in primis e sorridendo sodisfatto osserva il nostro godimento mentre affondiamo i canini nella polpa carnosa.
"Sono dei pasticcini Condorelli - dice Giuseppe - lo sapete che lui è di qui? Della zona di Catania". Come se ogni prelibatezza dovesse per forza di cose albergare da queste parti. Gli scatto una foto, chiedendogli il permesso di pubblicarla su internet. Ci pensa e acconsente, ma poi aggiunge che non si sentiva a proprio agio. E che sarebbe stata cosa buona e giusta se prima fosse riuscito a "sistemarsi un pochino". Una camicia sopra la canottiera magari e una pettinata ai capelli... "cosi sembro un vecchio" dice amaramente.
Noi lo rassicuriamo e lui si mette in posa. Provo a immaginare i suoi quattro figli "Tutti apposto. Tutti sistemati" non come i suoi capelli...
Penso a quali e quanti sacrifici abbia dovuto fare il signor Giuseppe per crescerli. Penso a quale sensazione provi a vivere eternamente lontano da casa sua, vedendo sua moglie solo un paio di giorni alla settimana. E non sempre. Negli occhi, un velo di malinconia non sparisce mai, nemmeno quando col suo bellissimo dialetto misto a un italiano incerto ci racconta delle sue peripezie. Si sente protagonista per una sera il signor Giuseppe e questo lo fa star bene.
Mi versa il terzo bicchierino di grappa, mi sbuccia il terzo fico d'india e io per cortesia lo mangio, maltrattando oltremodo il mio duodeno.
Il signor Giuseppe è davvero l'emblema di chi vive una vita vera, fatta di stanchezza, sudore, sofferenze, rinunce. Ma non si lamenta, consapevole che per lui il destino ha scelto quel tipo di vita. Si è assuefatto alle decisioni del fato che ha ordito per lui una trama complicata. Ma in fondo è un uomo libero, senza catene o padroni. Schiavo soltanto di una vita dura che non potrà cambiare e così sarà, finché le forze glielo permetteranno.
Ci dice che le donne non si toccano nemmeno con un fiore, "Sono come le rose". Io gli sorrido e condivido. Non beve quasi mai, il signor Giuseppe, non fuma. Non mangia molto, giusto per sopravvivere. Però ama raccontare. Lo fa a modo suo, in modo elementare, ma esaustivo. Con la giusta istruzione, chissà, sarebbe diventato imprenditore, astronauta, scrittore... E invece di mestiere fa l'eterno pendolare tra i suoi campi e le strade. E dorme sul camion, caldo d'estate e freddo in inverno. "Ma il fine settimana dormo con mia moglie! E sì..."
"Bravo" gli dico ogni volta.
"E sì..." replica lui ogni volta.
Dopo la cena, come sempre, compriamo dal signor Giuseppe alcuni suoi prodotti. Questa volta ci vende una cassetta da 10 kg di superbi fichi d'India, a un prezzo ridicolo. "Ma solo perché siete voi! A me piace parlare con voi. Siete persone per bene". Quasi ci commuove.
"Ma voi che mestiere fate?" ci chiede. Immaginandoci magnati del petrolio o ricchi turisti in vacanza.
Un amico, indicandomi col dito, gli dice: "Lui è comunista... mangia i bambini. Oggi ne ha già mangiati un paio prima del pesce stocco"
Giuseppe non capisce la battuta. Ma rimane perplesso. Saranno davvero così cattivi i comunisti?
"Ma no... lei è una persona a posto - mi dice - anche se stasera è tutto vestito di nero. Lei non è fascista..."
“Le assicuro che non sono fascista. Si fidi" gli rispondo sorridendo.
E anche lui sorride, con i suoi 4 denti storti, rapito dai sorrisi delle nostre fidanzate, con le quali si mostra ogni volta assai galante.
Finita la cena lo salutiamo. Fuori si è alzato il vento, scende l'umidità e sale la notte. Ma lui, Giuseppe, resta in canottiera. Non teme affatto le intemperie.
"Io sono un fuoco" ci dice, pavoneggiandosi.
"Signor Giuseppe, lo sa che anche io sono catanese? gli dico
"Non sembra... ma davvero?" È incredulo. Come può un magnate del petrolio, non fascista, nascere a a Catania, sul tavolo della cucina? È inverosimile, in effetti.
"Lo giuro sui suoi magnifici fichi d'india! Non sono affatto italiano. Sono siciliano come voi tutti. Ancora di più del mio amico. Sua mamma era di Cesena, pensi un po'!"
La serata è finita. Metto in moto la mia Skoda Turbodiesel del 2007 e salutiamo il signor Giuseppe. Lui ci segue con lo sguardo, mentre ci allontaniamo con la sua cassetta di fichi d'india nel cofano e qualche ricordo in più nel cuore.
"A presto!"
"Stia bene, signor Giuseppe. Vada piano con quel camion…