Era un uomo saggio
eppure peccò.
Dio lo perdonerà
Per le sue buone intenzioni
Grazia Deledda, “Il Dio dei viventi”
“Considero la vita una lunga vacanza meditativa, in cui imparare a convivere con la solitudine, riflettere sulla provvisorietà dell'esistenza.” Parole di Salvatore Niffoi, premio Campiello 2006; scrittore sardo e di Sardegna; inamovibili radici barbaricine dalle cui profondità scaturisce, dice ancora Niffoi, una terra popolata da …”disperati, fragili, deboli; poche o nessuna possibilità di riscatto (…) dove ogni via di salvezza sembra impossibile”. Dopo questa violenta raffica di ottimismo non rimane che dare credito all’immaginazione. Immaginate una regione ctonia, corrusca di vapori. Immaginate una presenza numinosa la cui voce, simile a un sibilo d’agonia, pronunci innominabili profezie.
Immaginate l’Eroe, Enea tanto per volare alto, che approda all’antro per apprendere il suo futuro, il futuro di Roma e del mondo per i prossimi 1500 anni. Ecco. Immaginate ora, frustato dai gelidi venti sulfurei che Cocito esprime dall’abisso, il gemito terribile della Sibilla mentre scolpisce nel silenzio del cuore l’irrimediabile vaticinio: “Vabbuò. Guagliò, dimme ch’agg’a dì.”.
Proprio così. La voce ipnoticamente arcana che induce a un suicidio quasi rituale molti abitanti di Abacrasta, l’inesistente borgo barbaricino nel quale si svolge l’azione di “Redenta Tiria”, esordisce immancabilmente con stereotipico intercalare da Bagaglino:
“Ajò! Preparati che il tuo tempo è scaduto!”
Carosello sta per iniziare. Notare gli esclamativi per la serie: tchu is meglio che uan . Va sottolineata, per amore di equilibrio, la pregevole delicatezza dell’autore nell’evitare raddoppi dialettizzanti: “Ajò! Prepparrati che il tuo tempo è scadutto!”.
Grazie, Niffoi. Ben lo sappiam che il sardo: “nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e scempiarla dov’è doppia, non la cede a nessuno”. (E. De Amicis: “L’idioma gentile – Bella musica sonata male”). La Morte, quella con la maiuscola, non può dire “Ajo!”. Né in Sardegna né in qualsiasi altrove. Niffoi, almeno qui, non usa il sardo come strumento espressivo contestualizzante ma impugna le singole parole come pietre da lanciare sullo sprovveduto che si avvicina si suoi testi. Non produce, “questo” Niffoi, il prurito piacevole della contaminatio, ma soltanto un’orticaria fastidiosa.
Insomma, l’effetto che si manifesta fin dalle prime pagine del romanzo di è più o meno questo: una galleria di ritratti tirati via di fretta, nemmeno un tentativo serio di approfondimento psicologico. Con qualche espressione dialettale buttata fra le righe qua e là a pioggia, come la punteggiatura di Totò. Certo, la voce ferale che annuncia e prescrive la morte “per cinghia”, non pretende di emanare dall’adyton della Pizia né dalle ipogee oscurità cumane. Ma il tentativo mitologizzante è scoperto. Troppo scoperto. La narrazione di Niffoi vorrebbe essere mitografica ma risulta mitomaniacale: Giasone, Eracliu e così via attraverso una Sardegna di cartapesta travolta dalla pletora onomastica che replica con mano pesante, all’infinito, il volto di una terra posticcia.
Dalle righe del romanzo non emergono tripodi sacri o sciamaniche ebbrezze narcotizzanti ad assecondare l’oracolo e a trarne ispirazione. Questo, almeno, lo scrittore barbaricino non lo afferma. Anche se lo suggerisce e se la narrazione, nelle intenzioni, sembra voler rivendicare stilemi nuragici riuscendo però soltanto a spargere disordinatamente una megalitica pletora di personaggi i cui nomi di arcaicamente sardo possiedono solo la desinenza, non lo spessore né il sentimento degli abitanti della favoleggiata Abacrasta “dove il cuore del tempo era di pietra”. Sì, di tanto in tanto, l’arte nobile di Niffoi appare in superficie con bagliori degni di ben altra temperie. I nomi, dicevo. Tutti forzatamente sardeggianti. Anche nel titolo si cerca l’aggancio col mito. La redentrice Redenta, è cieca. E allora chiamiamola Tiria visto (oops!) dato che anche Tiresia lo era. Troppo facile. Alla fine (è sempre lo Sparto padre di Manto a parlare) “La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta.” (F. Dürrenmatt “La morte della Pizia”; Adelphi).
Così si torna subito a galleggiare affannosamente in un coacervo di luoghi comuni e di personaggi lavorati non con cesello ma con lima da mazzo; con imbarazzante pertinacia. Sicché ne emergono tratti psicologici esili, fragili come foglie di mica. E come la mica isolano il carattere dal mondo sottraendogli colore e calore, delineando figure di cartapesta.
Che cosa si impara, qui “in Continente”, sull’animo e sulla cultura sarda, quando si legge tziu invece di zio? Furbastro ammiccare all’espressione dialettale.
C’è persino un po’ di spaghetti western con tanto di impiccati che dondolano al suono di un carillon. Il buono e il cattivo non sappiamo dove siano finiti. Qui c’è rimasto soltanto il brutto ma non ha la maschera gommosa di Eli Wallach
Il tentativo, scoperto, che sottende l’opera di Niffoi, è forse quello di ricreare un clima favoleggiante e misterioso, duro e disperato, fra l’aroma di Marques e il fetore di Verga. Macondo, però, rimane lontanissimo anche se lo sguardo dell’autore lo cerca ad ogni pagina, ad ogni riga. E padron ‘Ntoni sta veleggiando con “la Provvidenza” a distanze siderali insieme al coronel Aureliano Buendia.
Al gran bazar di Redenta Tiria non manca proprio nulla:, battorine, morre, istrumpe, burdi, launeddas… Mi correggo: in realtà le launeddas vengono buttate lì un paio di volte. Mi correggo per la seconda volta: qualche cosa è stato omesso: i Mammutones. Quelli, almeno, non ci sono. Rimangono aperti alcuni interrogativi. Anche perché Niffoi, di solito, è bravo con la penna. Non si vince un Campiello per caso. Avanzo un sospetto: le pressioni dell’editore sono prevalse su quelle dell’ispirazione artistica?