Norme, leggi, decreti ministeriali, ordinanze regionali, disposizioni più o meno transitorie, circolari prefettizie e chi più ne ha più ne metta. In tempi pandemici anche il cittadino più distratto si è ormai impadronito di un lessico ostico e fino a ieri oscuro, con il quale da più di un anno siamo costretti a convivere non solo in Valsassina ma in tutta la penisola.
Si tratta di atti pubblici necessari al contenimento della più vasta e grave epidemia dopo la “spagnola” del 1918 – 1919. La pletora incessante di provvedimenti giuridici alla quale siamo sottoposti testimonia efficacemente la qualifica dell’Italia come “patria del diritto”. E anche, spesso, del rovescio. Non si parla, qui, di tennis né di cucito. Vero è che senza un apparato legislativo a precisare diritti e doveri, aspettative e comportamenti, nessuna società potrebbe sopravvivere come gruppo sociale e politico omogeneo. In altri termini, la res publica trova i suoi fondamenti istitutivi e vitali nel diritto penale, civile, societario, internazionale, del lavoro e così via.
È comunque forse utile ricordare come la Valsassina si sia data molti secoli fa, un corpus normativo autonomo inteso a regolarne gran parte dell’attività in termini di vita amministrativa, civile e giuridica. Infatti sotto la signoria milanese dei Visconti, sullo scorcio del Trecento, vennero redatti gli “Statuti civili e criminali della Valsasssina” (“Statuta Civilia & Criminalia Communitatis Vallisaxinae”). Si tratta di uno strumento di grande importanza per la storia locale poiché testimonia bene la precocità con la quale le popolazioni valligiane guardavano alla loro autonomia dai Visconti, in questo ben fiancheggiati dai detentori del potere feudale locale, i Della Torre, la cui storia fu strettamente legata per molti secoli a quella della valle.
Ne parliamo di seguito supportati ancora una volta da quella inesauribile miniera di notizie prodotta da Giuseppe Arrigoni (al quale è dedicata la civica biblioteca di Introbio) e composta a metà del XIX secolo, che va sotto il titolo di “Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe dalla più remota fino alla presente età”.
Spiega dunque l’Arrigoni che gli Statuti, composti da “…duecento ottantaquattro capitoli, vennero approvati da Gio. Galeazzo Visconti protettore, governatore e conservatore della valle e delle pertinenze il 21 novembre del 1388, letti e pubblicati nel general consiglio della comunità radunato nel palazzo pretorio in Introbbio per ordine del nobile Albertino De Cavalli, vicario della Valsassina e delle pertinenze, il giorno 25 del menzionato mese.”
Rimasti in vigore fino alla fine del XVIII secolo, gli Statuti estendevano la loro giurisdizione su un territorio molto vasto comprendente oltre alla Valsassina orograficamente definita, anche i territori di Dervio, bellano, Varenna, Perledo e Esino ed erano orientati a instaurare vincoli e prescrizioni normative soprattutto in due settori: il civile e il penale, allora definito “criminale”. Ma, come spiega l’Arrigoni, le competenze del corpus statutario valsassinese non si limitavano ai territori sopra citati, visto che anche la Val Taleggio e l’Averara erano “…soggette alla Valsassina…” come risulta evidente “…al cap. V, in cui “…vien data facoltà al vicario di Valsassina di porre in sua vece un vicario o due in Taleggio, in Averara e nei predetti monti…”. Per i più interessati al testo originale citiamo un breve estratto dal primo manoscritto e riportato in nota dall’Arrigoni: “Item statuerunt et ordinaverunt quod Vicarius, seu Rectore dicta Vallis et Montium possit, et teneatur, quando sibi videbitur, ponere unum Vicarium vel duos de hominibus Talegii in Talegium et similitur unum vel duos de hominibus Averariae in Averariam…”. Un latinorum che farebbe inorridire qualunque liceale. Ma, all’epoca degli Statuti, Cicerone era morto da molti secoli e il cosiddetto “volgare” stava ormai scalzando la lingua dei dotti. Prova ne sia che delle due copie esistenti degli Statuti, una è stata tradotta in italiano ad opera del notaio Leone Arrigoni.
Scorrendo il testo della parte “criminale” si scopre che la vita, al tempo degli Statuti, non doveva essere giuridicamente molto tranquilla anche a causa della pesantezza delle sanzioni previste, alcune delle quali prevedevano la mutilazione e, in extremis, la pena di morte. La descrizione di reati e relative pene è molto minuziosa e discriminante. C’erano ammende per chi “bestemmiava Dio e la Madonna”. Costui poteva essere condannato a pagare “cinquanta soldi terzoli, e chi bestemmiava i Santi solamente in soldi quaranta.” Come si vede le gerarchie celesti erano pienamente rispettate anche per quanto riguardava l’ammontare delle pene pecuniarie.
Spiega poi l’Arrigoni, che la scienza giuridica tesa ad equilibrare reato e pena entrava in funzione anche per i ladri “poiché chi rubava dieci soldi era multato in soldi cento” mentre chi si rifiutava di pagare “entro dieci giorni era punito nella persona a giudizio del vicario, dei sindaci e del consiglio generale”. Le norme prevedevano, come abbiamo detto, anche la mutilazione: chi si impadroniva illegalmente “da cento soldi alle dieci lire” se non pagava l’ammenda entro quindici giorni “doveva perdere un occhio”. E se l’ammontare del furto era ancora maggiore il ladro moroso rischiava di “perdere la mano destra” o peggio visto che “chi era recidivo la terza volta veniva appeso alle forche”.
Insomma in materia di reati e punizioni gli Statuti non badavano a spese. Come se non bastasse, quando il reo non pagava, si poteva ricorrere a considerazioni genealogiche poiché, riferisce Giovanni Arrigoni, “I parenti fino al quarto grado eran tenuti a soddisfar l’importo del furto.” Grande attenzione era posta inoltre alle differenze di genere visto che in val Taleggio e Averara, gli Statuti “oltre alla perdita dell’occhio e della mano, prescrivevano anche quella di un piede e per le donne invece delle citate era il taglio del naso”. Niente viene precisato, nel testo di cui disponiamo, a proposito degli “operatori” addetti alla somministrazione delle pene corporali. Numerosi sono pure i riferimenti penali al gioco d’azzardo, allora molto diffuso nelle osterie e taverne. Ma in questi casi le pene erano solo pecuniarie: nei casi più gravi il reo doveva pagare un’ammenda di venti lire. Ma solo se il reato veniva perpetrato “nelle chiese o nei cimiteri”. Tempi duri, quelli, anche per i piromani dato che chi “appiccava il fuoco ad una casa con rumore e moltitudine era punito col taglio della testa”. Il testo dell’Arrigoni nulla dice a proposito delle pene comminate agli incendiari solitari e silenziosi. En passant: anche l’omicidio prevedeva la decapitazione.
Non mancano i riferimenti agli spacciatori di monete taroccate. Infatti, a testimonianza della pericolosa potenza del denaro, “il falsario di monete e chi prestava ajuto veniva abbruciato vivo”. Andava un po’ meglio agli spergiuri e bugiardi i quali, qualora non avessero pagato l’ammenda dovuta, rischiavano di essere marchiati con “un bollo di ferro rovente sul viso” oppure sottoposti al “taglio della lingua”. L’alternativa prevedeva il rogo “a norma dei casi”.
Non mancavano negli Statuti, riferimenti “femministi”. Durissime, infatti, le pene in caso di stupro: “Chi forzava una donna, consumando l’atto, era condannato nel taglio della testa e nella perdita di metà dei suoi beni”. Ma, sottigliezze della legge, se “la donna violentata era disonesta, dovevasi pagare solamente lire dieci”. All’epoca la violenza carnale era ancora un delitto contro la morale, non contro la persona: ope legis, la donna “immorale” valeva molto meno di quella onesta. Gli Statuti normavano con pignolesca meticolosità anche i rapporti famigliari ed extrafamigliari visto che era permesso “al padre il percuotere il figlio, al marito la moglie disonesta, al maestro gli scolari, al fratello maggiore il minore, al padrone il bifolco”. Beninteso, precisa il testo riportato dall’Arrigoni, “sempre senza crudeltà”. Ferma restando la circostanza che chi conduceva un ménage famigliare more uxorio, il concubinario insomma, poteva lecitamente ancorché “aspramente” picchiare la sua convivente “purché non le facesse sangue, né le rompesse le ossa”.
In altri termini la concubina poteva essere sottoposta a corporale, purché incruenta, punizione. Come si vede nel Trecento pochi erano in grado di rilevare la differenza fra peccato e reato. Cesare Beccaria nascerà solo quattro secoli dopo. Ma anche gli uomini di legge erano passibili delle sanzioni previste dagli Statuti. A costoro erano riservati alcuni articoli in base ai quali “Il notajo che avesse fatte scritture false, o chi le produceva, era punito col taglio della mano destra.” Per buona misura il titolare della funzione notarile “che avesse arbitrariamente inscritto nel libro dei bandi o cancellatovi alcuno” doveva essere “marcato di perpetua infamia”. Inoltre, riferisce l’Arrigoni, il vicario era “entro un mese obbligato a far dipingere il ritratto col nome e cognome del notajo” sui muri esterni del municipio di Introbio esponendo in tal modo il reo, tramite i suoi connotati, al ludibrio dei cittadini.
A questo punto seguiamo anche noi i passi dell’Arrigoni il quale spiega che avrebbe voluto dilungarsi “alquanto sul codice delle leggi municipali” ma “per amor di brevità e per non tediare troppo chi non cerca che i fatti, ne lascio la cura alla perspicacia dei lettori”. E noi anche alla loro pazienza.
I due manoscritti degli Statuti” sono attualmente conservati al Centro di documentazione e informazione dell’Ecomuseo delle Grigne, nel Comune di Esino Lario.
Riferimenti:
https://ecomuseodellegrigne.it/
https://it.wikipedia.org/wiki/Statuti%20della%20Valsassina%20del%201393
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Cultura