Giusto. Più che giusto. Giustissimo. Spezzare una lancia in favore di un calcio che torni “a essere quello che era”, più “umano”, insomma, come ha fatto ieri Enrico Baroncelli nel suo intervento sul diciannovesimo scudetto nerazzurro, è cosa buona e giusta. Anche se ormai il mondo dello “sport più bello del mondo” è andato davvero nel pallone, valicando limiti che nessuno poteva prevedere. Con artisti della pelota che valgono più di un quadro di Picasso. Ricordo ancora i 90 miliardi di lire pagati da Moratti alla Lazio per Vieri nel 1999. Ecco com’era cominciato tutto. Nessuno però sollevò significative obiezioni. Al cuore non si comanda.
E al portafoglio? Stesso discorso per allenatori superpagati che, quando va bene, durano una o due stagioni. Con squadre d’élite immerse in una palude di debiti dalla quale non sanno come uscire. Per finire all’inconcepibile ingresso in Borsa. Eccola qui la punta dell’iceberg del problema chiamato calcio. Dice: ma la modernità e il progresso non possono non riguardare tutta la società e il mondo del pallone ne fa parte integrante. Vero. Ma allora non strappiamoci i capelli se qualche club miliardario (in euro) viene duramente punito dalla legge del capitale (finanziario). E non stupiamoci se un pugno di club di livello internazionale (se fossero telefonini [pardon: smartphone] si chiamerebbero flagships) tentino di strutturarsi in una sorta di super loggia massonica per costituirsi in centro di gestione di superpoteri sportivi e finanziari. Per fare “cartello” insomma e imporre la loro legge al mondo. E non solo a quello calcistico. Oggi, nell’era della globalizzazione e della “rete universale superveloce” anche il calcio 4.0 è diventato una merce come le altre.
E persino i debiti possono essere venduti e fruttare interessi non disprezzabili. Almeno in piazza Affari. Ciononostante, e proprio per questo, l’aspetto umano della questione rimane fondamentale e non può essere ignorato. Come dimostra l’epidemia di tifo che domenica si è sovrapposta per ore a Milano a quella del coronavirus, grazie alla sciagurata invasione barbarica del centro ambrosiano da parte di 30mila sciamannati tifosi quasi tutti privi di mascherina e, ça va sans dire, di buon senso. In barba a tutte le norme, restrizioni e disposizioni vigenti per la lotta contro la pandemia.
Aspetto umano, dicevamo. Ma in questo caso sfuggito all’attenzione dell’intervento di Baroncelli la cui pur non esplicitata fede nerazzurra (dal pezzo però si capisce benissimo) gli ha fatto, certo comprensibilmente, ignorare questo aspetto della vicenda. Non facciamo finta di non saperlo: il mondo del calcio vive, da sempre, anche di queste manifestazioni di demenza collettiva agita da dinamiche sociali difficilmente controllabili. A che serve, ora, additare responsabilità istituzionali per il rito tribale autocelebrato in piazza Duomo e dintorni? Davvero si pensa che qualche “celerino” in più avrebbe tenuto sotto controllo la sarabanda?
Che sarebbe bastato prendere accordi con le società per attenuare gli effetti indesiderati del tifo? A che serve, ancora, starnazzare come ha fatto il capotribù leghista, contro il sindaco Sala che non ha pensato di convogliare i protagonisti della serata milanese e i loro coloratissimi fumogeni nel catino del Meazza, trasferendo così il gigantesco assembramento da un posto all’altro? Gli effetti ecumenici della patologia sociale chiamata molto propriamente tifo, si manifesteranno probabilmente nelle prossime settimane in termini di aumento dei ricoveri ospedalieri, di risalita degli indici di contagio. E il video riportato in apertura di pagina su Valbiandino.net non ci rassicura ma conferma i timori. Ma andiamo sempre dove ci porta il cuore… indipendentemente dal colore delle maglie e della zona, ora gialla, nella quale viviamo.