Dignità, rispetto, diritti, benessere, partecipazione, integrazione, inclusione nei processi di sviluppo, pari opportunità, parità… Come sono belli i vocaboli che s’intrecciano nei commenti riguardanti la Giornata Internazionale delle Persone con disabilità, istituita nel 1981 dall’Onu per il 3 dicembre, per sensibilizzare la popolazione sul tema della diversità e del suo valore, dei diritti inalienabili di ogni essere umano, indipendentemente dalla condizione fisica, psichica, sensoriale, sociale.
Anche quest’anno celebriamo questa importante Giornata e per l’ennesima volta sentiamo parlare con convinzione di superamento delle barriere architettoniche, fisiche, sensoriali, cognitive, culturali e religiose, di abbandono di ogni forma di discriminazione e di esclusione, della necessaria costruzione di un mondo accessibile a tutti. E si moltiplicano gli incontri, i convegni, i forum, le discussioni pubbliche, le campagne d’informazione, le manifestazioni sportive, gli spettacoli e le iniziative scolastiche. Volteggiano dovunque parole e frasi colorate, brillanti di luce propria, che per il fatto stesso di essere pronunciate ci fanno stare meglio: «Si sta facendo molto ormai, finalmente si cambia», ci troviamo a pensare con fiducia.
Un’analisi realistica
Tutto questo è indubbiamente molto bello, ma c’è qualcosa che non torna. Proviamo a pensare alla questione in modo realistico, liberandoci dal bisogno di illuderci, che spesso ci assedia. Questa Giornata viene celebrata da più di quarant’anni: un tempo abbastanza lungo. A questo punto dovrebbe essere cambiato tutto, anzi non dovremmo nemmeno più sentire il bisogno di celebrare una Giornata come questa. Invece ancora oggi capita di raccogliere continuamente storie inzuppate di dolore, che mostrano le piaghe aperte dell’emarginazione e della solitudine. Basti sottolineare ciò che tutti già sanno: non è sufficiente parlare di diritti perché i diritti siano riconosciuti e non basta una giornata all’anno in cui cercare di svegliare coscienze che si riaddormenteranno subito dopo.
Una mentalità da cambiare
È lo sguardo che deve cambiare. La Consulta diocesana lo grida con forza fin dal primo momento della sua fondazione, quando ancora faceva parte del Servizio per la catechesi ed era formata da sei persone. Ma lo sguardo, cioè la mentalità, il punto prospettico da cui guardare la realtà, quel modo di pensare che esige di tradursi in opere e vita, cambierà soltanto se tutto il nostro territorio, religioso e civile, verrà percorso e ripercorso dall’acqua vitale di una formazione mirata, attiva perché laboratoriale, continua e costante. È ciò che la Consulta ha incominciato ad attuare e si propone di continuare, mettendosi al servizio dei sacerdoti, delle consacrate e dei consacrati, degli operatori pastorali e delle famiglie delle nostre parrocchie.
In tal senso, anche la Giornata del 3 dicembre potrebbe costituire una buona occasione, nella misura in cui non rimanga però finalizzata a se stessa, ma costituisca un trampolino di lancio per avviare e rafforzare processi, anche lenti e faticosi, ma inesorabili, che alimentino nel cuore di tanti il desiderio di plasmare un volto di Chiesa che sia realmente sinodale e pertanto inevitabilmente capace di accogliere e ascoltare tutti e di far sentire ognuno parte insostituibile dell’unico corpo ecclesiale e della società civile.
Le proposte per l’animazione – sia della celebrazione eucaristica, sia del resto della giornata – nate dalla collaborazione tra la Consulta e la Fom – vogliono contribuire a riempire le nostre parrocchie del calore dell’inclusione, in modo che, contagiandoci reciprocamente, possiamo diventare generatori di scintille che creeranno incendi. E così, insieme, scalderemo il mondo.
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