Potrei sapere per favore - chiese Alice-
da che parte posso andare?
Tutto dipende da dove vuoi andare!-
rispose il gatto.
È la storia di un viaggio. Di molti viaggi che sono uno. Dunque del viaggio che li comprende tutti perché ciascun andare, ogni procedere trova alla fine la propria, comune ragion d’essere. Che è la stessa per ciascuno. Chiamatelo, se volete, “destino dell’umanità”. O, anche, “traguardo finale”. Oppure, plotinianamente, “ritorno all’uno” che sono molti: singolare pluralità di/degli Elohim, di cui narra l’ebraico geroglifico del testo mosaico, ridotta un paio di millenni più tardi ad incomprensibile patri filioque trinitario.
Ci parla Vonnegut, con sottile, anche se spesso tragico, umorismo, di tutti i viaggi possibili purché sia concessa un’escatologia. Una qualsiasi. Anche se le titaniche Sirene del romanzo forse più famoso dell’autore di “Ghiaccio 9” e “Mattatoio n. 5” (potenza evocativa del Numero!) sembrano indicare solo l’illusione di un futuro del mondo.
Principia infatti, con l’apparizione dell’involontariamente “infundibolato” Winston Niles Rumfoord, il viaggio dei viaggi: da Ulisse a Verne, da Gilgamesh a Marco Polo, da Senofonte all’Apollo 11. Ma la Luna, la Dea Luna, è chimera irraggiungibile e vacua. Nessun ritorno a casa ci è consentito, nessuna anabasi è possibile. Perché, lacrima il mite Salo, robot umanissimo di tenera infelicità, solo “Lassù tutti sono felici per sempre”. Nessuna patria, nessuna terra né Terra, non c’è una casa. C’è l’angoscia di un’infinita, inafferrabile immensità. Il vuoto siderale di un avverbio: “lassù”. La lontananza totale che è assenza assoluta.
Dunque divina. Il Divino, appunto, che l’arte sottile eppure implacabile di Vonnegut, descrive con dissacrante ironia dipanandone l’impronunciabile Nome. Non l’arcano e innominabile JHWH. Né il feroce, protosatanico Baal. Neppure la guerriera fenicia Astarte. Il Dio di cui si occupano sacerdoti e fedeli (inebetiti aficionados del pulpito) nel mondo, afflitto da sindrome metacronica, di Malachi Constant, possiede un’onomastica pletoricamente improponibile: Dio Assolutamente Indifferente. Ovvero: Volontà Universale Di Divenire. Si capisce, allora, perché “quel” Dio presenti un volto, familiare ad ogni sedicente cristiano, il volto sfrangiato e indefinito dell’Assoluto. In quanto tale totalmente e aristotelicamente immobile. L’ovvietà teologica dell’assunto è persino imbarazzante: l’assoluto possiede al massimo grado tutti gli attributi possibili. I quali, naturalmente e sovranaturalmente, in quanto espressione dell’assoluto, si neutralizzano a vicenda generando “l’assoluta indifferenza”, l’equilibrio eternamente stabile del nulla, irrelata radice del tutto; entropia come assenza totale; caos assolutamente imperfetto e imperfettibile della probabilità zero. Vonnegut spiega tutto ciò con accenti assolutamente indifferenti e col sorriso in punta di penna. Ma si tratta meno di leggerezza che di levità.
Viaggiatore involontario dell’esternità, W. N. Rumfoord vede e prevede tutto ma non può non assecondare la fatalità di un futuro universale onnivoro le cui ragioni risiedono altrove e che solo la compulsività di un rito, uno qualsiasi, può rendere sopportabile. Pur che un altrove sia dato. Rumfoord fonda dunque una chiesa e una religione prive della sostanza divina. Neppure Dio è la nostra meta, il nostro scopo. Il divino, essente ma inesistente, assume così i contorni inquietanti del mistero, laicissimo e ateizzante, che produce ogni perché. Vonnegut con divertito cinismo fa precipitare il lettore (purché non assolutamente indifferente ai destini del mondo) in quella che Umberto Eco, nella prefazione alla ormai introvabile prima edizione italiana del romanzo, definisce “…vertigine di varie teologie…” suscitando in tal modo “…il sospetto che tutte le nostre azioni dipendano da qualche macchinazione che ci supera…” ma che non ha nulla di divino o di trascendente.
La Storia, (e la Tecnica) dunque, come ingranaggio molecolare di un meccanismo meta-cosmico il cui senso consiste precisamente nell’assenza di un senso e nella presenza di quel senso, quel messaggio dal quale tutto deriva: “saluti”. Cartolina iperspaziale, metatemporale, intergalatticamente equivalente al nostrano “noi siamo qui”, timbrato Rimini o Courmayeur, Katmandu o Seychelles, Roma o Sharm El Sheikh. Ecco emergere dai flutti rapidi e schiumosi della prosa vonnegutiana il profilo di una strumentalità totalmente deterministica: “…sono come orologi che si caricano ogni giorno: fanno il loro tic-tac e vogliono che il tic-tac sia chiamato virtù”. Ma Nietzsche è un inguaribile ottimista poiché teorizza perlomeno la possibilità di una virtù
Ciononostante desideriamo il mondo. Ci mettiamo in cammino nello spazio e nel tempo, tentando invano di controllarne gli eventi, di coglierne la natura. Ecco riscritte con accenti modernamente disincantati, le avventure di Alice. Ritorna quel viaggio nell’inquietante imprevedibilità di un Paese popolato da incomprensibili meraviglie. Quello e questo, universi caotici dell’assurdo. Regno onirico dell’inconscio l’uno, dominio incontrastato dell’illusione e del caso l’altro. Malachi, apocope dell’ultimo profeta biblico custode della sapienza e messaggero fedele di un dio crudele (“Infatti le labbra del sacerdote devono / custodire la scienza / e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione, / perché egli è messaggero del Signore degli eserciti” Malachia 2,7), rinasce Unk nel nome e nella psiche. Ignaro vate, non sa perché si trova su Marte; non sa chi è; non sa perché né per chi combatte; non sa dove sta andando né lo saprà mai. Ma come l’Enrico Massimiliano Ligre di Marguerite Yourcenar “…sta andando verso il suo destino”. E verso il nostro. Jacques il fatalista non è da meno poiché la sua umanità si muove formicolante senza mai sapere dove è diretta. Con biblica indifferenza: “Il cuore dell'uomo medita la sua via, ma il Signore dirige i suoi passi” (Proverbi 16,9). Neppure “il vero comandante” Boaz capisce; anche se, unica eccezione, troverà la sua meta finale: la dedizione totale ai teneri Harmonium, piccoli peluche vibranti di tenerezza, assetati d’amore. Ecco uno scopo.
Rumfoord - Alice e il suo cane Kazak, sono poveri padroni, come noi del resto, di un destino che non conoscono né guidano, prigionieri nella loro tana di coniglio spazio - temporale, simile ad un “…mare privo di colore, di sapore e di peso di un’esternità senza fine”. Sono soltanto “…fenomeni ondulatori… che pulsavano in spirali distorte, con l’origine nel Sole e le terminazioni in Betelgeuse.” Incapaci per sempre, del resto come noi, di liberarsi dal giogo delle avverse stelle.
Estrusione oniricamente inquietante dei turbamenti del reverendo Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carrol, Alice segna un leit-motiv che percorre esplicitamente e completamente il romanzo. Fin dal principio Vonnegut non nasconde l’origine della sua ispirazione: “L’unico ingresso alla tenuta era una porta simile a quella di Alice nel Paese delle meraviglie…”.
Non ci stupiamo se il vagabondo Rumfoord si dissolve “…cominciando dalla punta delle dita e terminando con il sogghigno. Il sogghigno rimase per qualche tempo dopo che il resto di lui era scomparso.” Chiarissimo. Anche il gatto del Chesire abita con cane e padrone, l’infundibolo cronosinclastico che chiamiamo universo. Nel cui nucleo (nucleo? Anima? Cuore? Mente? Dio?) spazio e tempo perdono unità frantumandosi in infinite particelle psicolabilmente caotiche. Anche il caos ha una mente? Ecco serviti con suprema leggerezza ed estrema sintesi la caduta nel tempo, l’inizio e la fine del mondo, il peccato originale e la sconfitta dei babelici nella valle di Sennaar.
Difficile non collegare il portafortuna - pezzo di ricambio, la cui forgiatura comprende tutti i destini del mondo, alla piccola chiave d’oro trovata da Alice. Una chiave che non aprirà nessuna porta; che non violerà nessuna toppa; che non rimuoverà alcun diaframma, nessun velo di Maja. Un piccolo, elementare manufatto il cui significato simbolico eccede infinitamente il suo “valore d’uso”, possiede il senso trascendente perché inattingibile (non viceversa) del primo atomo di elio dell’universo. E la cui origine archetipica, il punto (geometrico, cronologico, psicologico, mitologico; privo di dimensioni ma non di esistenza), dal quale procede tutta la realtà, consente la verificabilità del mondo, la “misura” delle cose.
Anche Malachi Constant si accorge di “…esistere come un punto…” quando Beatrice gli raccomanda di essere “puntuale” alla materializzazione del marito che, prima di “apparire” nel mondo, esiste sotto solo come fenomeno ondulatorio. Onda e punto. Punto come elemento dell’onda che subito lo nega affermandolo nella luce. Essere e divenire mutuamente escludentisi. L’incomprensibile logica dell’infinito; il paradosso della coincidentia oppositorum che si manifesta a “…Newport, Rhode Island, P.S.A., Terra, Sistema Solare, Via Lattea”. Che è, anche, sei secoli dopo Niccolò da Cusa, il luogo di tutti i punti e le onde possibili. La descrizione dell’infundibolo cronosinclastico è un piccolo capolavoro di divulgazione scientifica. Relatività e fisica quantistica spiegate in 20 righe. O quasi.
Vonnegut, con prosa solo apparentemente disarticolata e destrutturata, produce con straordinario pleonasmo un’apocalittica rivelazione: lo scopo del mondo è altrove e in fondo non ci riguarda. Siamo pezzi di ricambio per macchine sconosciute, disumanamente umane. Ma non ci rassegniamo. Anche se “Solo sulla Terra si parla di libero arbitrio”, spiega un tralfamadoriano a Billy Pilgrim, protagonista di “Mattatoio n. 5”. Ma in fondo non mette conto chiedersi a chi o a che cosa serviamo. Perché, ci illumina Beatrice, “La cosa peggiore che ci possa capitare è che nessuno si serva di noi per qualche cosa”. Ecco; senso e significato sono l’ombra evanescente di uno scopo.
Ma il perché del mondo non ha un perché. E se la natura dello scopo è fondamentale, allora neppure Dio è uno scopo valido poiché non ne conosciamo le ragioni. Forse, sembra suggerire Vonnegut, meta della vita è la morte. La dolce morte, infatti, conclude la vicenda terrena di Malachi. E’ questo il premio che Salo gli conferisce. Insieme all’ultima illusione della felicità: “Lassù tutti sono felici per sempre.” Missione compiuta, dunque? Sì, se solo si potesse capire qual è lo scopo di Tralfamadore, della sua antichissima civiltà, di tutte le possibili civiltà dell’universo. L’”anarchia ipnotica”di Tralfamadore assomiglia molto al governo del Mondo nuovo di Huxley, la cui esistenza è sorretta dall’ipnosi beatificante del soma che annulla tempo e spazio proprio come l’infundibolo cronosinclastico che imprigiona Rumfoord. Così le macchine imparano a piangere e soffrire ma non ad essere felici. Per loro non esiste la beatitudine psicotropa della droga ma solo un destino. Per questo il piccolo, commovente Salo, appare umano. Per questo Malachi, Unk, Rumfoord, Boaz, Stony, Crono, Beatrice e tutti noi apparteniamo, lo sappiamo o no, lo vogliamo o no, all’infinita meccanica del Tutto. E la “terra incognita” dell’anima rimarrà inesplorata.
Alla fine del gioco il titanico, plurimillenario impegno dell’uomo “a seguir virtute e canoscenza” conseguirà in qualche modo solo la tragica certezza che “I doni dello spazio, dell’infinita esternità…” sono soltanto tre: “… eroismi inutili, commedie di scarso valore, morte senza scopo”. Siamo il cuore di un dissennato nonsenso.