DRAGHI FOR PRESIDENT ?
L’intervento di Enrico Baroncelli a proposito dell’eventuale incarico a Mario Draghi per la formazione di un governo tecnico, contiene numerosi punti interessanti sui quali vale la pena soffermarsi anche, perché no, criticamente. Sulla evidente inadeguatezza dell’attuale classe politica a definire una rotta che porti il Paese fuori dalle secche di una gestione paralizzante della cosa pubblica, siamo d’accordo: così è impossibile continuare. Esiste il rischio, gravissimo, che la bagnarola parlamentare - partitico - governativa finisca per schiantarsi sugli scogli sommersi degli interessi di parte, anch’essi affioranti a pelo d’acqua.
Certo, affidare all’ex presidente della Commissione europea il compito di costruire un governo di “salute pubblica” è rischioso. Soprattutto, come spiega bene Baroncelli, per Draghi e per le prospettive future di un suo, possibile se non probabile, insediamento al Colle. Ma il ricorso anticipato alle urne potrebbe essere forse ancora più rischioso proprio per i motivi ben addotti nel commento. Dobbiamo necessariamente fare i conti con una classe politica in gran parte ideologicamente spappolata, agitata permanentemente da moti browniani legati ai meschini borderò di una azione politica di piccolissimo cabotaggio, priva di lungimiranza e di credibilità. Eventuali elezioni non avrebbero certo il potere di produrre una palingenesi epocale su elettori (ed eletti), soprattutto con un sistema a liste bloccate come il nostro. Liste che verrebbero comunque stilate dai soliti noti in camicia verde, gialla, rossa, grigia o nera. L’Italia, lo si voglia o no, è una Repubblica politicamente ed elettoralmente fondata su un tessuto sociale dotato di estrema policromia. Per questo è difficile (lo sarà sempre) produrre una riforma elettorale equilibrata, Rosatellum compreso.
Inoltre non è certo necessario ricorrere a tecniche necromantiche per intravedere gli effetti immediati della composizione numerica del prossimo Parlamento, ridotto di oltre un terzo dal referendum del 20 e 21 settembre 2020. Le pressioni e i condizionamenti degli apparati di partito sui singoli candidabili aumenteranno in proporzione diretta alla riduzione dei posti in aula in omaggio all’onnipresente legge di mercato: a una riduzione dell’offerta corrisponderà un deciso aumento del “prezzo” (in termini di ossequio alla disciplina di partito) che ciascun candidato dovrà pagare per accedere all’Assemblea. E gli apparati saranno così in grado di condizionare con maggior efficacia l’operato degli eletti nelle proprie file.
Meglio comunque votare subito? Lo chiedono a gran voce da mesi anche Meloni e Salvini. Vogliamo marciare, sia pur turandoci montanellianamente il naso, affiancati a quei due e sospinti da una indigesta e paradossale eterogenesi dei fini? E quali effetti, certamente non trascurabili, produrrà sulle geometrie politiche delle forze in campo, quindi sul responso delle urne, una campagna elettorale già ormai iniziata e prevedibilmente condotta all’arma bianca? La spaccatura interna ai 5 stelle è molto più profonda di quello che si può intuire osservando la superficie appena increspata dal dibattito politico e mediatico.
Certo, come ci si augura, sarebbe necessario dar vita ad “una competizione leale e due progetti contrapposti e onesti…”. Ben detto. Anche noi aspiriamo ad un’Italia politicamente e onestamente bipolare. Lo afferma su Facebook, con inarrivabile faccia tosta, persino Matteo (quello del cerchio magico, non di Pontida) rivolgendo un evangelico appello alle “persone di buona volontà”. Ma stiamo davvero parlando della stessa classe politica sul cui “fallimento definitivo” sembra non ci siano dubbi? La stessa classe che dovrebbe improvvisamente e inopinatamente provare amor patrio, passione, onestà e competenza per condurre l’italica res publica fuori da una crisi non solo pandemica ma soprattutto “morale”? Sì, proprio così.
Mi permetto di tirar fuori dalla naftalina, un’ormai dimenticata “questione morale” che l’onda anomala di Mani pulite sembrava avesse riportato definitivamente all’attenzione del mondo. E della politica, per la cui corretta e onesta gestione sarebbe certo opportuno seguire le indicazioni fornite, due secoli or sono, da un acuto osservatore della società, calandoci “nei panni degli altri più con l’animo del poeta che da ragionatore.” Firmato: Giacomo Leopardi. Però lui si occupava di poesia, non di politica.