"Le cri de la carotte", di James Hansen.
Sì, il “grido della carota”. Recenti ricerche suggeriscono che le piante, come gli
animali, sentono dolore e possiedono una forma semplice d’intelligenza. Si pone così un nuovo
problema etico—e forse alimentare—che il francese Dominique Lestel, autore di Apologie du carnivore,
riassume in questi termini: “Perché sarebbe più etico far soffrire una carota piuttosto che una lepre?”
L’intento dello scrittore “carnivoro” è ovviamente polemico, ma la domanda non è senza merito. Se
entrambi i tipi di organismi soffrono quando li consumiamo, che senso ha risparmiare gli animali
mentre uccidiamo con violenza carote, verdure e germogli di soia? Lestel conclude che vegetariani
e vegani sono degli assassini né più né meno di chi mangia una bistecca al sangue e, a semplice
rigor di logica, è difficile dargli torto.
La domanda in sé non è nuova. Gli erbivori “filosofici” finora se la sono cavata asserendo che le piante
non possono provare dolore perché non hanno un sistema nervoso. Però, negli ultimi tempi ricerche
hanno dimostrato che, per quanto il funzionamento delle reazioni e, volendo, delle “emozioni” delle
piante sia diverso da quello degli animali, qualcosa di molto simile esiste pure negli organismi vegetali.
Un’equipe dell’Università di Losanna, per esempio, ha dimostrato l’esistenza di un meccanismo nelle
piante che permette alle foglie “ferite” di comunicare il danno subìto attraverso “un processo di
segnalazione a lunga distanza” che “stimola la produzione di... potenti regolatori delle reazioni di difesa”.
Il lavoro, secondo i ricercatori, indicherebbe la presenza nella pianta Arabidopsis—un’erbaccia comune
nei prati italiani—“di geni simili a quelli importanti per l’attività sinaptica negli animali”, un’attività che
agisce cioè come una sorta di “sistema nervoso diffuso”.
Ciò non dovrebbe sorprendere. Per quanto non siamo soliti a percepirle a questa maniera, le piante sono
tra gli organismi più grandi e complessi del mondo. Un esemplare di Posidonia oceanica, scoperto nel
2006 sui fondali al largo delle Baleari, è lungo circa otto km e vecchio—si stima—più di 100mila anni.
Indipendentemente dalle “verità” scientifiche, ormai da tempo va di moda attribuire una vita emotiva
alle piante—almeno quando sono raggruppate in boschi o simili. È il tema centrale di un importante
bestseller internazionale dell’ambientalista tedesco Peter Wohlleben, “The Secret Life of Trees”, “La
saggezza degli alberi” in versione italiana. Wohlleben scrive: “Che sia un lupo che sbrana un cinghiale
oppure un cervo che mangia un germoglio di quercia, in entrambi i casi ci sono dolore e morte”.
Poniamo allora che le piante soffrano terribilmente quando le raccogliamo. Dobbiamo quindi rinunciare
a consumarle? La risposta è palesemente “no”. Di che cosa ci nutriremmo poi, oltre alle foglie morte
cadute per terra o a qualche sbobba unicellulare che non potrà pensare a niente? Forse è utile ricordarsi
delle civiltà asiatiche storicamente vegetariane. Potrebbe non essere un caso che sono emerse tra
popolazioni con una densità tale da rendere impossibile sfamare tutti con la carne. La storia dimostra
una notevole tendenza a trasformare ciò che è necessario in moralità. Se davvero le piante soffrono
nell’essere mangiate, o cambiamo dieta o cambiamo etica.
Pubblicato in
Opinioni