Non capisco e non giustifico quelle “truppe lombarde” agli ordini del generale Fontana, come le ha chiamate, nell’editoriale del 31 gennaio scorso, Riccardo Benedetti, che si erano cimentate in allegre scorribande domenicali, con 24 ore di anticipo, sulla transizione cromatica disposta da palazzo Chigi e legata al misterioso indice Rt (ma non solo a questo) e collegata al giallo, colore meno vincolante e prescrittivo del rosso e dell’arancione. Era stato sufficiente che il “governatur” spiegasse su Facebook di non capire perché il governo non avesse anticipato a domenica l’avvio della zona gialla.
E si è scatenata una migrazione di massa dalla pianura verso le nevi alpine e prealpine.
Oggi, quando il colore della Lombardia, con prevedibilissimo effetto Doppler, si è spostato verso il rosso, fermandosi fortunatamente all’arancione, ci siamo ritrovati con gli stessi problemi di un mese fa. Nel cui ambito si agitano come sempre, i soliti “conflitti di interessi” (e di poteri) fra Stato ed Enti locali che segnalano in tutta la loro evidenza gli attriti generati dalla governance delle autonomie regionali e dalle rispettive competenze, nei confronti dell’autorità centrale. Insomma, chi tira da una parte, chi tira dall’altra, Ma la trama intessuta con perfida malignità dalla “variante inglese” assomiglia molto, non solo nella definizione della mutazione virale, a una partita a scacchi con troppi partecipanti ciascuno dei quali pretende di applicare al gioco regole personali. Nella migliore delle ipotesi solo in parte condivise.
Ma a ben vedere esiste un elemento più sottile e di non facile individuazione nel rapporto fra Stato (o apparato) e cittadini. Ed è un problema che si riferisce alla lingua, parlata o scritta che sia. Poiché, anche in tempi pandemici, la lingua, ogni lingua, è un’opinione. Proprio come la matematica. Persino la scienza dei numeri, come sostengono alcuni, può essere soggetta ad incertezze interpretative e, in alcuni casi, condurre a conclusioni indecidibili. L’italiano non sfugge a questa regola. Un esempio significativo si nasconde nel testo, pandemicamente fondamentale, emanato sotto forma di Decreto dal presidente del Consiglio dei ministri il 14 gennaio scorso, al quale tutti i successivi decreti, interventi, precisazioni, mutatis mutandis, fanno riferimento. Il neonato DPCM eruttato in tutta fretta da Supermario Draghi non costituisce un’eccezione e riprende alla lettera il testo di Giuseppe Conte in riferimento agli spostamenti fuori dal Comune di residenza o abitazione. Insomma: la regola dei 30 chilometri.
Nonostante il lodevole ed evidente intento del legislatore di realizzare un testo “leggibile” anche da parte di chi non frequenta assiduamente i documenti redatti in burocratese stretto, qualche passaggio oscuro è certamente presente nel precedente e nel presente Decreto. Produco di seguito un solo ma illuminante esempio.
Nell’articolo 35 (paragrafo 5) si trova scritto che “Sono comunque consentiti gli spostamenti dai comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti e per una distanza non superiore a 30 chilometri dai relativi confini, con esclusione in ogni caso degli spostamenti verso i capoluoghi di provincia”. Come si dice, nero su bianco. Ma si tratta di colori non previsti dalla policromia pandemica giallo - arancio - rossa.
Chiaro no? Ci si può allontanare per non più di 30 km dal comune di residenza ma “non verso i capoluoghi di provincia”. Dunque chi, in vigenza di zona arancione, ipoteticamente avesse deciso di recarsi da Introbio a Pasturo, secondo il dettato di cui stiamo parlando sarebbe fuorilegge non appena superati i confini del territorio comunale di partenza poiché il movimento sarebbe diretto indubbiamente verso Lecco che, lo scrivo per i più distratti, è senza tema di smentite, comune capoluogo di provincia. Dunque? A rigor di termini gli introbiesi avrebbero potuto dirigersi verso Primaluna o Cortenova, ma non verso Barzio o Ballabio. Ma forse nemmeno queste considerazioni risultano adeguate e prive di zone grigie o comunque cromaticamente indefinibili visto che, comunque sia orientato, nel nostro movimento è pur sempre individuabile una direzione che in qualche modo punta a un capoluogo di provincia. Infatti chi malauguratamente intendesse raggiungere la Culmine San Pietro, potrebbe essere sanzionato perché si sta certamente dirigendo verso Bergamo.
Insomma, riduttiva o estensiva, ogni valutazione del testo appare problematica. Così, appena ti muovi, sei in ogni modo fuori legge a causa della direzione di marcia la quale, a 360 gradi punta sempre e inevitabilmente verso qualche capoluogo di Provincia.
La verità è che nessun testo e nessuna lingua possono essere privi di ambiguità e incertezze. Tutto, ma proprio tutto, è soggetto a interpretazione. Certo, in molti casi basterebbe un po’ di buon senso. Ma si tratta di merce rarissima e comunque soggetta ad interpretazioni diverse. Ci risiamo. Ma sospetto, contraddicendomi con palese evidenza, che nel nostro caso sarebbe stato sufficiente, agli amanuensi presidenziali, sostituire a “degli spostamenti verso” la frase “degli ingressi nel territorio comunale di un capoluogo di provincia”. Magli oneri interpretativi, come gli esami di eduardiana memoria, non finiscono mai. Sarei davvero felice se qualcuno, ai piani alti, anche con decreto, mi spiegasse con precisione in quale direzione posso muovermi. Chiedo troppo?